“Venite, vi faccio vedere i falchi”. E lo sguardo non può che andare verso l’alto. Ma, i falchi di Matteo D’Errico, 38 anni, aradeino, mente, anima e ‘pugno’, della scuola di falconeria Falcon Farm, sono in giardino, diligentemente in attesa, sul retro della sua casa di campagna, alle soglie di Cutrofiano. La zampa legata a piccole pietre, distanti un paio di metri l’una dall’altra, aspettano che il falconiere li riporti al coperto, sui trespoli. Immobili, sguardo fisso, come sull’attenti. Imperturbabili, nonostante il bracco che gioca a stuzzicarli, le gocce di pioggia che segnano la terra, e la presenza di sconosciuti.
Matteo infila il guanto di pelle, striato da tracce di artigli e becchi, e invita sul pugno una splendida femmina di falco pellegrino. “Le femmine sono più robuste e grandi dei maschi”, spiega, “erano il simbolo dell’imperatore Federico II”. Animali da piuma, che cacciano a volo alto e disdegnano gli animali da pelo, da inseguire nei campi. Falchi che Matteo non utilizza nel suo lavoro.
I falconieri moderni hanno trovato il modo di impiegare le virtù del falco a beneficio della collettività, attraverso un metodo efficace e non cruento per allontanare l’avifauna molesta da aeroporti, stoccaggi alimentari, porti turistici, centrali elettriche, itticolture e capannoni industriali. I falchi prevengono il fenomeno noto come “bird strike”, l’impatto tra volatili e veicoli in volo o in transito. Ma non è questa la routine del falco pellegrino.
“I falchi da lavoro non sono gli stessi che porto a caccia”, spiega Matteo. Il suo lavoro è un necessario effetto collaterale della passione per i falchi, nata più di quindici anni fa, quando sedeva ai banchi dell’Istituto d’Arte di Galatina. Fu il suo insegnante, Nicola De Marco, a metterlo per la prima volta di fronte a un falco. “Non c’erano corsi all’epoca”, continua, “io ho imparato a vivere tra i rapaci dopo vent’anni di sbagli e attese”.
Sembra tornato ai suoi 17 anni, quando racconta dei primi falchi, “stupidi greppi”,delle veglie a luci basse ad aspettare con un guantone di pelle che il falco lo degnasse di mangiare dalla sua mano, dei rapaci persi per inesperienza, e del primo falco pellegrino arrivato in voliera. Per chi lavorava con banali greppi, un pellegrino che si poggia sul pugno è un’emozione da lacrime agli occhi. Insieme ai falchi, sono poi arrivati gli splendidi gufi, pacifici vicini di voliera, le poiane e, infine, le aquile reali.
“Quando ho iniziato a praticare la falconeria, i falchi li catturavamo da soli, ora si catturano con un clic su Internet”, continua, e parla con un certo imbarazzo della falconeria in Italia. Dove arrivano i falchi peggiori, quel che resta da nidiate e fiere. Lui i suoi rapaci li sceglie in anticipo, in giro per il mondo, dagli allevamenti migliori. E nonostante non ci sia la trepidazione della cattura, “mi sento onorato, oggi, di dare un po’ di carta e avere in cambio un falco”.
Parlare con Matteo è scoprire un’altra falconeria, con l’occhio concreto dei primi falconieri. Piombare in una dimensione medievale dove l’animale era trattato con rispetto, senza stupide idealizzazioni e inesistenti poesie.
La falconeria non è fatta per i sentimentali, pare voler dire quando, alla domanda “come si insegna ad uccidere ad un falco?”, fa finta di non sentire e passa oltre. Come se non si potesse svelare, in due parole, l’insegnamento di anni. “Nella falconeria, mai pietà. Solo giustizia e rispetto”, conclude schietto.
Addestrare un falco non è come addomesticare un cane, a suon di punizioni. “Fai del male a un falco e non sarà più il tuo animale da caccia”, spiega, “io faccio fare al falco quello che farebbe in natura, con i suoi tempi”.
Sì, perché, il falco è libero di scappare, una volta in volo. Ma i falchi di Matteo atterrano sempre sul suo braccio.
Tuttavia, nel capanno degli attrezzi del falconiere, ci sono le sue riceventi, con trasmittente, per tenere d’occhio il falco in volo, e una serie di sonagli, le riceventi del Medio Evo, una campanella che, appesa al collo del rapace, ne segnalava ogni movimento. “Un buon falconiere intuisce, al solo suono del sonaglio, senza alzare lo sguardo, se il falco sta volando, è in picchiata o sta planando”. Accanto ai sonagli, i cappucci in pelle, piccoli capolavori di artigianato, di diversi colori e dimensioni, perché non sfiorino becco e occhi.
Il metodo di Matteo si basa su quello che, in gergo tecnico, si chiama ‘yarak’, il peso ottimale, per non agire solo per fame e non sacrificare la massa muscolare, unica difesa contro le malattie. Matteo tiene d’occhio il metabolismo di ogni rapace, “per non farlo volare stretto”. Un approccio che adotta anche con i cavalli, non ferrati e allevati quasi allo stato brado, suoi compagni di caccia. “Ho riposto il fucile da tempo”, spiega. Niente è paragonabile all’emozione della caccia con falco, cane e cavallo, natura contro natura, intelligenza contro forza, ad armi pari. Una lotta leale, anche se la legge la equipara alla caccia con fuoco e arco.
Ma quella del falconiere è una battuta di caccia che necessita una perfetta regia,che in un istante mette a fuoco: l’uccello da cacciare, il possibile nascondiglio della preda, la direzione della sua fuga, con il vento di fronte o a favore, e la coreografia dell’attacco.
Qui i segreti di un’antica arte ritornano nel lampo di un falco che piomba in picchiata. La storia si nasconde in pochi gesti, impercettibili movimenti del polso, un veloce battito d’occhi che si accorda con uno strabiliante battito d’ali. Astuzie che non si possono improvvisare, né essere apprese in un corso.
“I miei corsi servono per scoraggiare chi pensa che possedere un falco sia metà dell’opera”, spiega. “Il tempo alla fine seleziona tutti”, ama ripetere Matteo e, come un novello Lorenz, gioca con i falchi e li prende in giro. “Un falco ha tre neuroni: uno dice mangia, l’altro dice mangia, e l’altro dice riproduciti, se vuoi”, aggiunge dissacrante. E rincara la dose: “Il falco non è intelligente, è puro istinto, una scheggia di energia”, e schernisce chi guarda un falco e finge improbabili empatie. Il rapporto con il falconiere non è individuale e si lega a chiunque ne riproduca i movimenti esatti.
Dopo un pomeriggio in compagnia di Matteo, è come se il falco ci avesse sussurrato all’orecchio un po’ del suo segreto. “Sono gli uomini che gli hanno appiccicato il concetto di libertà”, spiega, “nessun falco vola inutilmente”. L’energia risparmiata oggi servirà quando la caccia sarà più difficile.
Gli ambientalisti non sono d’accordo. Legare un falco, coprirlo con un cappuccio, contraddice l’immagine del rapace libero cui siamo affezionati. “Un falco in mano ad un ambientalista è come una pistola in mano ad un obiettore”, taglia corto Matteo. È l’eterna lotta tra pratica e teoria, tra la dottrina di chi parla e l’empirismo di chi fa e, in questo caso, si pronuncia dopo aver guardato negli occhi un falco, per almeno vent’anni. Per questo la didattica è molto importante per la Falcon Farm. “Organizziamo corsi, ricostruzioni storiche, dimostrazioni, soprattutto per i bambini”, spiega. Per fare del falco un animale familiare e dissipare dubbi e luoghi comuni. Ad esempio, quelli di alcuni veterinari con i quali conduce dispute interminabili contro l’accanimento terapeutico sui rapaci. “Uccidere un falco è un atto di coraggio, tenerlo in vita è una vigliaccheria”, dichiara, “avere un falco è un privilegio, ma occorre lasciarlo morire se una malattia lo rende incapace di volare.”
Approccio da etologo per Matteo, che si fa beffa di chi ha fatto della falconeria un sentimento e l’ha sporcata di inutile mistero. In fondo, è curioso che sia un uomo innamorato dei falchi a svelarne tutta l’inevitabile prosaicità e a raccontare di una falconeria che, pur scoperta e quasi restituita a se stessa, conserva intatta la sua poesia. “Io amo i falchi ma è un’amicizia a senso unico”, afferma, “non pretendo che sia come un essere umano”. E di certo, neanche lo vorrebbe. “A me basta poter avere sul pugno un pezzo di natura”.
Valeria Nicoletti
www.quisalento.it