“ Vedrai ” mi aveva avvertito Giorgio “ il mio amico è un tipo molto particolare e sono sicuro vi piacerà”.
Non avevo alcun motivo per non credergli: avevo conosciuto Giorgio da poco ma lo reputavo una persona seria, molto cauta e …centrata…nei suoi giudizi sulle persone, e questa è una delle ragioni che me lo fanno apprezzare e stimare maggiormente.
“ Sono curioso di incontrarlo” gli avevo risposto al telefono “ e mio figlio Edoardo lo è ancor di più.”
“ Sai Alessandro,” aveva proseguito “ Antonio è la persona più in sintonia con la natura che io abbia mai conosciuto” e aveva iniziato a tracciarne un breve ritratto “ vive in Val Trompia, in un cascinale isolato che pare un gioiello tanto è curato. Lì lui e la moglie allevano molti animali e coltivano con metodi naturali, proprio come si faceva un tempo. Mangiano quello che si produce e producono quello che serve loro. Si fanno i formaggi da soli e cucinano e scaldano con la legna dei loro boschi.”
Questa sua descrizione bucolica, come si fossero fermate le lancette del tempo e ci si trovasse di fronte a membri delle comunità amish che vivono nell’America più tradizionale, mi stuzzicava e, confesso, m’intrigava parecchio.
Quella mattina c’eravamo alzati prestissimo e prima delle cinque e trenta eravamo già in auto. Erano iniziate le vacanze natalizie e avevo promesso a Edo che l’avrei portato con me, sulle colline piacentine.
Avrei raggiunto Giorgio ed altri amici per discutere d’un progetto relativo al mondo venatorio che stavamo sviluppando da qualche tempo, con la passione autentica dei veri cacciatori.
L’incontro era fissato nella magnifica azienda faunistica di cui lui è uno dei gestori.
Si trattava di millecinquecento ettari di terreno, stesi tra dolci e fertili alture coltivate a grano, mais, orzo e inframmezzate da verdissimi prati, pregiati vigneti e vasti frutteti sicuro rifugio per lepri, starne e pernici rosse. Tutt’intorno fitti boschetti di roverella e castagno popolati da cinghiali, daini, cervi, caprioli e delimitati da quelli spettacolari calanchi che ne rendono unico il paesaggio.
Insomma, un autentico paradiso per gli amanti di caccia e natura, due concetti che io credo siano nient’affatto in contraddizione e debbano andare a braccetto.
Io e mio figlio c’eravamo già stati il mese prima per cacciare beccacce, e ci eravamo innamorati di quell’ambiente; tornarci, per di più con la possibilità d’effettuare un’esperienza unica, era cosa da togliere il sonno non solo ad Edo, giustificato in ciò dai suoi undici anni, ma pure al sottoscritto che a passo sostenuto s’avvicina ormai al mezzo secolo.
Giorgio infatti, da gran signore qual è, aveva voluto farci un regalo: avremmo cacciato con un autentico falconiere, erede di quell’arte, nobile ed antichissima, che ha avuto in Federico II uno dei massimi cultori.
Il grande imperatore svevo, vissuto all’inizio del milleduecento scrisse anche un famosissimo trattato “ De arte venandi cum avibus ” che ancor oggi viene considerato la vera e propria “ Bibbia” dei falconieri di tutto il mondo, ed è opera che, dopo quasi ottocento anni, dimostra ancora un’incredibile capacità d’analisi e un’ineguagliabile maestria descrittiva.
La nostra mattinata sarebbe stata tutta dedicata a questa particolarissima disciplina venatoria e, fortuna nostra, pure il tempo ci accompagnava, con la previsione di un sole che avrebbe riscaldato l’aria gelida della notte e aiutato la nostra azione di caccia.
Fummo fortunati e arrivammo puntuali, favoriti dal traffico regolare e dall’assenza della nebbia, abituale spauracchio per coloro che percorrono quel tratto autostradale nei mesi autunnali e invernali.
Il nostro ospite era già pronto, e ci aspettava all’esterno della casa di caccia, un gradevole edificio in pietra e mattoni che s’affaccia sopra un ampio anfiteatro naturale da cui si può godere d’un incantevole panorama.
Avevamo ancora un po’ di tempo perché Antonio sarebbe giunto solo dopo mezz’ora e così Giorgio ne approfittò per farci fare un breve giro dell’azienda, alla ricerca di qualche cervo o capriolo.
Ma ormai il sole era splendente e gli animali, certamente usciti per le pasture notturne protetti dall’oscurità, erano rientrati nei boschi per trascorrere gran parte della giornata.
Il tempo di fare quattro chiacchiere, bere un caffè e arrivò anche il tanto atteso falconiere.
Fatte brevi presentazioni saltammo sulle auto e ci dirigemmo verso la zona di caccia prescelta.
Il giro prevedeva di salire in cima ad un poggio e da lì spostarsi verso alcuni campi e coltivi dove Giorgio sapeva essere presenti alcuni voli di rosse e starne. Avremmo cacciato battendo i fianchi di quelle colline e poi in discesa, facilitando così il volo e l’azione del rapace.
Antonio scaricò dall’auto il cane, indispensabile ausiliare per quella forma di caccia, così antica quanto affascinante. Era un setter inglese bianco arancio, tipico e bello anche se piuttosto robusto; il suo padrone, e lo si vedeva chiaramente, non gli faceva certo mancare il cibo.
“ Come si chiama ?” chiese Edo.
“ Sul pedigree c’era scritto Asso, ma non mi piaceva e così l’ho chiamato Assicello” e subito si rivolse al suo compagno in dialetto bresciano, invitandolo a raggiungerlo:
“ Te’, te’ ve’ che Assicel.”
Io e Giorgio sorridemmo pensando che solitamente i cacciatori se cambiano il nome assegnato al loro cane dall’allevatore è per abbreviarlo, renderlo immediato. Lui invece l’aveva allungato.
Quando il setter gli fu vicino Antonio gli mise il beeper al collo.
“ Hai paura vada lungo ? ” l’interrogò il padrone di casa non senza immaginare quale potesse essere la sua azione di caccia. Io, che non sono cinofilo esperto ed ho una setterina dotata di un motore impressionante che caccia sui monti, l’ avevo visto muoversi e immaginavo che Assicel cacciasse con il piglio e le aperture di un bracco italiano, piuttosto che di uno scatenato inglese.
Entrambi sbagliavamo a sottovalutarlo, e il prosieguo dell’avventura lo dimostrò senza alcuna ombra di dubbio.
“ Eh sì, ” aveva risposto Antonio senza curarsi dei nostri sorrisini “ questi cani vanno lontani.”
Ma il beeper, forse dimenticato acceso dall’ultima volta, lo tradì e non s’accese.
“ Pazienza, ” disse lui “ ne farò a meno. Giorgio, datemi una mano voi a tener d’occhio Assicel. ”
E venne il momento tanto atteso.
Antonio aprì nuovamente il portellone posteriore del suo minivan e sopra la gabbia del setter notammo una specie di borsone in cuoio che altro non era se non un trasportino per rapaci. Una cerniera lo chiudeva sulla parte anteriore. Dentro il magnifico uccello.
“ Che bel falco !” esclamò ammirato Edo.
“ No, non è un falco! Questo è un astore ” e lo estrasse dopo aver calzato l’indispensabile guanto in cuoio che protegge dagli artigli del rapace. In realtà, ci disse dopo, lui avrebbe potuto farne a meno, ma era meglio evitare che il predatore alato, spaventato da qualcosa, potesse stringere ferendolo con la potenza della sua stretta. Non lo assicurò, lasciandolo libero perché fosse in grado d’involarsi se fosse frullato qualche selvatico, pizzicandogli solo le zampe tra pollice e indice.
Antonio iniziò con le sue spiegazioni, dimostrandoci subito grandissima preparazione e una cultura in materia veramente notevole. Era per noi la prima prova di quanto quella nobilissima arte venatoria fosse profondamente radicata nel suo animo e di come quel tipo d’addestramento fosse la prova di quale strettissimo rapporto debba legare il cacciatore, d’ogni tipo, ai suoi ausiliari, “quattro gambe” o alati che siano.
Il suo astore era un maschio, e in quella specie il dimorfismo sessuale è particolarmente elevato.
Però, a differenza di gran parte del mondo animale, qui è ribaltato con le femmine più grandi, talvolta imponenti, rispetto al loro compagno; questo capita per molti rapaci diurni come aquile, falchi, sparvieri, gheppi e altri ancora (non le poiane) mentre si “normalizza” con quelli notturni, dove il maschio torna ed essere di maggiori dimensioni.
“ E’ una questione di selezione ” spiegò Antonio “ così facendo maschi e femmine cacciano prede diverse e talvolta in ambienti molto differenti, aumentando le possibilità di sopravvivenza per la loro specie”.
Un altro miracolo di quella natura che nulla lascia al caso e, come in tutte le …serie programmazioni…, prevede sempre almeno un “piano B”.
Il rapace pesava ottocento grammi e, proprio come il simpatico Assicel, pure lui era al limite superiore della taglia. Ma anche questo era voluto e Antonio seppe spiegarlo benissimo:
“ Normalmente i falconieri tengono i loro uccelli …a stecchetto… e lo fanno per acuire il loro istinto predatorio ” e mentre parlava guardava con affetto il suo astore e gli carezzava le piume “ a me non sembra giusto anche perché quando lui caccia ha bisogno di tutta la sua potenza per abbattere la preda.”
L’animale era molto giovane, nato il maggio precedente, e aveva davanti a se una lunga vita che, nel caso di astori tenuti in cattività, può superare agevolmente i quindici anni per arrivare sino a venti.
Ormai, nonostante la ritrosia e la timidezza tipica delle genti di montagna, Antonio era quasi un fiume in piena e continuò a istruire me, Giorgio e il giovane Edo, incantato e rapito da quelle spiegazioni.
Sapemmo quindi che lui aveva allevato ed addestrato altri tipi di rapace, dai velocissimi pellegrini, agli ambiti girifalchi, ai bellissimi lanari per giungere sino ad ibridi tra le varie razze.
“Il pellegrino, ” ci disse “ lo conoscono tutti. E’ un falcone di buone dimensioni che sfrutta la velocità della sua picchiata per abbattere le prede. Io ne ho volati parecchi.”
Intanto Assicel esplorava i medicai e i piccoli gerbidi che li orlavano su più d’un lato.
“E’ un rapace d’alto volo, così come tutti gli altri falconi, e viene rilasciato dal falconiere prima d’individuare la preda. Lui sale in alto sfruttando le correnti termiche ascensionali e vola in cerchio sino a quando la vede e allora si butta giù in picchiata, a velocità folle. Credetemi è uno spettacolo!”
Il setter avvertì qualche emanazione e rallentò la sua azione, Antonio spostò il braccio per favorire la visione dell’astore che intanto seguiva l’azione allungando il collo e sollevando il suo becco adunco.
Ma sfortunatamente il setter aveva sentito le rosse troppo lontano, e gli uccelli pedinarono davanti a lui che così non poté bloccarle. Raggiunsero un piccolo salto che sormontava una stradina sterrata e da lì si buttarono verso valle, involandosi così veloci e lontane che io fui l’unico a vederle partire. Che fossero selvaticissime, e pure ottime volatrici, lo testimoniò la traiettoria della loro fuga che ci sembrò infinita.
Rammaricati per l’occasione sfumata decidemmo d’abbassarci, ispezionando alcuni piccoli boschetti e lunghe siepi spinose dove le nobili pernici potevano trovare un facile rifugio.
Antonio completò la sua spiegazione e ci disse d’aver scelto l’astore perché gli piaceva il suo tipo d’azione. A differenza dei falconi gli astori, e così pure gli sparvieri, sono uccelli con ali più corte che li rendono capaci di seguire le prede anche tra la vegetazione fitta. Sono definiti rapaci di basso volo e cacciano le loro prede lanciati direttamente dal pugno del falconiere.
E in effetti ricordavo di come il tecnico faunistico del mio comprensorio alpino m’avesse spiegato come i galli forcelli venissero più frequentemente predati a terra, e tra i boschi, dall’astore che nei cieli dall’imponente aquila reale o dalle più diffuse poiane.
Proseguimmo la ricerca dei selvatici con Assicel che ormai ci dimostrava d’aver preso confidenza con quel tipo di terreno, e non lasciava inesplorato alcun angolo.
Non passò molto che al bordo d’uno scosceso prato il cane segnò nuovamente l’incontro. Si bloccò perentorio vicino una siepe spinosa, subito sopra una stradina sterrata. Ci precipitammo verso il cane e quando lo raggiungemmo Antonio si disse certo che lì ci fosse qualche selvatico. L’astore capì anche lui, nonostante non vi fosse il suono del beeper a confortarlo in ciò.
“ Vedi ” disse lui “ si sta preparando alla caccia” e aprì il pugno con cui lo teneva stretto all’altro braccio, quello che calzava il guanto.
Ma il cane faticava a risolvere l’azione visto l’intrico di spine che proteggeva il selvatico. Cercammo di incitarlo e Assicel capì, entrando nel piccolo forteto. Lo superò e attraversò anche lo sterrato bloccando nuovamente a ridosso d’un’altra siepe che sormontava un esteso campo.
Forzò nuovamente e un frullo improvviso ruppe quel silenzio favorendo in tutti noi l’improvviso rilascio di tutta la nostra …adrenalina venatica.
Una coppia di rosse saettò via, quasi fosse una freccia scagliata da un arco al massimo della tensione. Partì anche l’astore, gettandosi dietro alle due pernici rosse.
Ma i selvatici avevano un buon vantaggio e attraversarono rapidamente il pratone scosceso per rifugiarsi nel bosco che riempiva il fondovalle.
“ Non le ha prese!” esclamò Antonio mettendosi a correre verso il basso per recuperare il suo prezioso uccello che nel frattempo s’era incovato su qualche pianta.
Io, Edo e Giorgio la prendemmo con calma e li seguimmo.
“ Senti come grida papà ” disse mio figlio “ sembra arrabbiato!”
Ricordavo d’aver letto come i primi beeper riproducessero il verso dell’astore proprio perché, questo si diceva, in questo modo gli uccelli avrebbero evitato d’involarsi troppo presto, restando schiacciati al suolo.
Intanto Antonio aveva quasi raggiunto il fondovalle e cercava d’individuare il rapace.
Noi arrivammo poco dopo, ma Antonio aveva già superato un piccolo ruscello ed era entrato nel bosco lungo una stradina che lo costeggiava per poi tagliarlo dirigendosi verso il crinale.
Sentimmo nuovamente rumore d’ali e grida di morte.
“ L’ha presa, l’ha presa ” urlò Antonio.
Quando pure noi superammo quelle due dita d’acqua ci si presentò una scena inconsueta: l’astore stava a terra, a bordo stradina, tenendo tra gli artigli la rossa, mortalmente ghermita.
“ Stava andando via di pedina ” disse “e lui l’ha vista dalla cima dell’albero.”
Giorgio aveva seguito bene l’azione e raccontò d’aver notato l’astore fiondarsi giù dalla pianta e, con una curva velocissima, coprire con le sue ali la povera penice che correva sullo sterrato.
Il rapace gridava come un ossesso e con il becco adunco tentava di strappare piume e brandelli di carne per mangiarli. Antonio lo fece fare e poi lo bloccò, ad evitare che rovinasse la preda.
“ Loro cacciano per cibarsi ” spiegò “e dunque deve prendersi qualche soddisfazione pure lui.”
Dalla cacciatora estrasse la carcassa d’un’altra pernice che s’era portato da casa e l’uccello riprese il banchetto.
Intanto arrivò anche Assicel e lui prese a complimentarsi con il prezioso setter.
“ Vedi Alessandro” riprese “ nella falconeria che piace a me il cane è l’elemento più importante, ed è lui che scova il selvatico. Il rapace completa l’azione così come la fucilata nella caccia che fate voi. Ma ” continuò “senza il cane facciamo poco e non ci divertiamo nemmeno.”
Prese la funicella e vi assicurò l’astore che s’era risistemato sul robusto guanto protettivo. Poi tutti insieme risalimmo verso le auto.
Avevamo chiuso una magnifica cacciata, realizzata proprio come si faceva prima che venissero scoperte polvere da sparo e armi da fuoco, e quando cacciatori e imperatori come Federico II percorrevano i boschi e le campagne europee in groppa ai cavalli, con stuoli di servitori al seguito e i loro magnifici rapaci sul braccio.
Stavo completando il mio pezzo quando m’arrivò una telefonata di Giorgio:
“ Ricordi il mio amico Antonio?”
“ Sì, ” risposi io “ perché?”
“ Quel fenomeno ” proseguì lui “ ha partecipato in Friuli ad un importante raduno internazionale di caccia con cane e falco. Pensa,” concluse “ caso unico ha vinto in entrambe le sezioni.”
Che dire in più: bravo!
E pure Federico II si sarebbe complimentato con Antonio Leone.
Scritto da Alessandro Bassignana
fonte: cacciando.com