Addio alle mani legge 157 del 92

Interpretazione della Legge 157/92

Cass., Sez. Terza, n. 139 del 10/12001

mani

 

1992, n. 157, che punisce l’esercizio della caccia con mezzi vietati, atteso che siffatto mezzo, non essendo compreso fra quelli consentiti tassativamente indicati dall’art. 13 della stessa legge, rientra tra quelli vietati ai sensi del comma 5 di quest’ultima disposizione, che considera tali tutti quelli non espressamente ammessi.
La sentenza è stata emessa in un procedimento contro un soggetto che aveva catturato dei nidiacei da utilizzare come richiami; la Cassazione ha detto che non sussiste il reato di incrudelimento verso animali, ma i reati di uccellagione e di impiego di mezzi di caccia vietati.La giurisprudenza della Cassazione in materia di mezzi di caccia consentiti sta aprendo inusitati scenari repressivi che forse sfuggono ai più, ma che giungeranno ad essere sconvolgenti (nel senso che molti resteranno letteralmente sconvolti).

La prima avvisaglia si è avuta con la sentenza n. 8322 del 23/07/1994. In essa la Cassazione affermava che una ricetrasmittente usata per tenere in collegamento i cacciatori è un mezzo di caccia. È vero che poi con sent. n. 1920 del 24/09/99 correggeva il tiro affermando correttamente che sono tali solo i mezzi di abbattimento indicati specificamente, ma già con sent. n. 7756 del 04/07/2000 affermava che i richiami vivi sono mezzi di caccia non previsti.

Il tragico è che, per chi non conosce nulla della caccia e della sua storia, questa interpretazione trova un apparente appiglio persino nella legge sulla caccia! Vediamo perché.

L’art. 13 L. 157/9, intitolato ai mezzi di caccia, elenca i mezzi di caccia consentendo solo fucili di determinato calibro, l’arco ed il falcone e vietando ogni altro mezzo.

L’art. 21 stabilisce poi dei divieti particolari tra cui “prendere piccoli di uccelli”, “usare richiami vivi”, “usare trappole, reti, tagliole, lacci, ecc.”

L’art. 28 stabilisce che di fronte a certe infrazioni la polizia giudiziaria procede al sequestro “delle armi, della fauna selvatica e dei mezzi di caccia, con esclusione del cane e dei richiami vivi autorizzati”. L’art. 30 lett. h punisce infine chi esercita la caccia con mezzi vietati oppure per chi usa richiami vietati. Da queste norme risulta evidente che il legislatore ha, come sul dirsi, straparlato perché:


le trappole e le reti, che sono certamente mezzi di caccia, li ha inseriti nell’art. 21 invece che nell’art. 13 senza considerare che trappole e reti non esauriscono di certo l’elenco dei mezzi vietati ;

nell’art 13 vieta espressamente ogni mezzo di caccia non previsto in esso articolo, ma poi definisce all’art. 28 mezzi di caccia anche i richiami, ma ne autorizza l’uso.

nell’art. 28 accomuna il cane da caccia ai richiami senza accorgersi che sulla qualificazione dei richiami si potrebbe discutere, ma che senza dubbio la legge non considera il cane un mezzo di caccia; se così fosse l’uso del cane sarebbe sempre e comunque vietato perché né l’art. 13 né altra norma ne autorizza l’impiego!

Orbene, ritornando alla realtà (che è regolata e non creata dal diritto) non vi può essere dubbio sul fatto che, in senso tecnico, i mezzi di caccia sono solamente quegli arnesi o strumenti o animali che servono all’abbattimento o alla cattura di un selvatico: armi da fuoco, armi da lancio, trappole, lacci, reti, panie, falcone, furetto, cane che insegue e sbrana il selvatico, ma non certamente le cose che servono per cacciare, per andare sul luogo di caccia, per cercare la selvaggina, per trovarla una volta uccisa, ecc. Ed il motivo è semplice: mentre i mezzi di caccia sono limitati ed individuabili, tutte le altre cose sono infinite e non determinabili. Nel momento in cui io vado a caccia, tutto ciò che ho con me, dalla macchina, ai compagni, al vestiario, al cibo, serve per cacciare, ma non è essenziale per la cattura dell’animale, tanto che le stesse identiche cose potrei portar

le per fare un’escursione, per fotografare gli animali, per fare il guardacaccia. Quale pazzo si sognerebbe di sostenere che un binocolo è un utile attrezzo sportivo che improvvisamente diviene vietato se viene trovato in mano ad un soggetto che ha intenzione di catturare un animale? La stessa cosa vale per i radiotelefono: esso è uno strumento generico utilizzato dagli escursionisti e il fatto che venga utilizzato da un cacciatore non muta la sua natura e sostanza.


Se fossero vere certe affermazioni della Cassazione si giungerebbe a soluzioni a cui di certo non sarebbe giunto neppure il più incallito animalista:

– chi va a caccia dovrà lasciare a casa il cellulare (così utile in caso di incidente) perché può servire esattamente come la ricetrasmittente per avvisare i compagni che c’è un cinghiale in giro.

– il cannocchiale è meglio dimenticarselo perché può servire ad uccidere la selvaggina e la legge non ne parla.

– il cane serve indubbiamente per stanare e braccare la selvaggina e non è previsto tra i mezzi di caccia; è vero che la legge dice che sono vietati i segugi nella caccia al camoscio, ma in altro articolo, diverso da quello sui mezzi di caccia (art. 13 L. 157/92) e perciò il cane non è espressamente consentito.

– le civette e le anatre di plastica e simili arnesi servono ad attirare la selvaggina e quindi sono mezzi di caccia non previsti.

– la giacca verde serve per mimetizzarsi e quindi è vietata.

 

Conclusione ovvia per le persone sensate dovrebbe essere perciò la seguente: lo strumento che serve per sua natura all’abbattimento o alla cattura di animali è vietato se non è specificamente autorizzato dalla legge; ogni altra cosa che ha un uso generico, può essere vietata per la caccia solo in base ad una specifica disposizione, come avviene per i richiami vivi.


Tutto questo lungo discorso, utile per comprendere il problema dei radiotelefoni, è superfluo per controbattere la sconvolgente affermazione che le mani sono un mezzo di caccia proibito .. perché la legge non le autorizza! Affermazione di fronte a cui l’onesto cittadino inizia veramente a dubitare del proprio equilibrio mentale e comincia a chiedersi se un buco temporale non lo ha trasportato nel pianeta delle scimmie, dove tutto funziona al contrario; naturale conseguenza quando si giudica senza comprendere le norme che si applicano, senza fare un’analisi dei precedenti storico-legislativi, oppure in base a proprie personali convinzioni, con spregio della realtà e del buon senso.

Perché se le mani sono un mezzo di caccia, allora lo sono anche i piedi, le scarpe, i bastoni da passeggio, ecc.

Facciamo alcune ipotesi:

Ho sparato ad un fagiano che è a terra ferito; non posso torcergli il collo (uso delle mani), non posso tagliargli la testa (uso di coltello); secondo la Cassazione posso solo sparargli un secondo colpo di fucile; se ho finito le cartucce lo devo lasciare agonizzante sul posto e raccoglierlo solo quando è morto; se è ferito e lo raccolgo con le mani è evidente che caccio con un mezzo proibito.

Sono alla ricerca di funghi e di sotto i piedi mi schizza una lepre; chi convincerà il guardacaccia e la Cassazione che non cercavo di catturarla a calci?

Raccolgo dei sassi e mi diverto a vedere quanto lontano li tiro; sarò condannato per caccia alle rondini con mezzi vietati?

Vado a caccia in compagnia di mio figlio che mi aiuta a far uscire i merli dai cespugli; dove sta scritto nella legge che posso farmi aiutare a cacciare da un compagno?

Il mio bambino crede che i merli si prendono con il sale sulla coda; se va nel bosco con un pacco di sale, è in regola? E io risponderò di istigazione a delinquere?

Come può essere che sia reato più grave il raccogliere con le mani un passerotto caduto dal nido, che lo sparare una fucilata dentro al nido? E se raccolgo il passerotto con una paletta, questo è mezzo proibito?

Siccome i mezzi di caccia vietati non possono essere portati in atteggiamento di caccia, che cosa ne faccio delle mani quando vedo un fagiano; me le taglio? Oppure a cacci

a ci possono andare solo i mutilati?


Mi avrebbe detto Totò: “ma mi faccia il piacere!”

L’utilizzo del Cavallo Siciliano Indigeno per la caccia col falcone

cavalloNon è facile entrare nel mondo dei falchi e della falconeria ma una volta introdotti si rimane affascinati; è un’arte piena di difficoltà e d’imprevisti e non c’è dubbio che, praticandola a cavallo, gli ostacoli aumentano notevolmente anche se ciò provoca maggiori emozioni al falconiere, il quale porta nel suo bagaglio genetico quel carattere indistruttibile di sentimento, di nostalgia, d’amore per il passato medievale.

E’ una cultura che risale ad epoche antichissime, come numerose testimonianze di vari paesi vengono a dimostrare: addestrare falchi o altri uccelli di rapina, utilizzandoli per la cattura della preda.


Il mondo orientale ha detenuto nel passato questo primato d’addestramento: la raffinatezza del pensiero culturale, la perspicacia, la pazienza, l’astuzia sono caratteri genetici tipici dei popoli del Sol Levante; i cavalieri Mongoli ne sono una testimonianza, in quanto ne furono i primi artefici e gli Arabi hanno altrettante tradizioni antiche; i Cinesi nel 200 a.C. adottavano tecniche di ammaestramento e tutta l’area del Medio Oriente è stata la culla della falconeria.

Nell’alto Medioevo, con l’invasione dell’Europa, da parte di popoli scesi dal nord della Siberia, questa nuova tecnica della caccia farà la sua apparizione e dal 1500 al 1600 verrà eletta al grado di “istituzione”.


Per tutto il lungo periodo medievale e parte del rinascimento il falco veniva considerato un volatile di pace, un mezzo di riappacificazione fra due popoli in contrasto fra loro, merce di scambio fra cristiani e mussulmani nel periodo delle crociate. Protetto per mille e più anni nel corso della storia dell’uomo, in cui leggi severe venivano applicate a chi uccideva o rubava i piccoli dai nidi, con l’avvento della polvere pirica e la nascita delle riserve di caccia e la conseguente loro gestione, la falconeria avrà una fase decrescente lenta e conclusiva.

Come poter considerare un arte simile senza la presenza del cavallo, entità indispensabile per la vita e l’attività dell’allora cavaliere – falconiere, un animale sempre pronto a sopperire alle necessità dell’ esistenza quell’epoca.

falconierecavalloI cavalli in generale sono animali intelligenti che imparano ad accettare un volatile che plana su di essi o un falcone che al volo, rapido e repentino si porta ad appollaiare sul pugno del cavaliere, ma vi sono dei cavalli che non accettano il rapace, che si intimoriscono, così dicasi pure di quei cavalli eccessivamente nevrili. La taglia media è di per se un fattore positivo in quanto il cavaliere può montare e smontare da sella con maggiore facilità.


Riferito al Cavallo Siciliano Indigeno, erede dell’antico equus siculo, per il suo passato ancestrale, per l’utilizzo che nei secoli se ne è fatto in questo genere di sport, accetta il rapace ed associa alla sua conformazione elegante, sobria e nell’insieme corretta, un ottimo sviluppo delle masse muscolari, un giusto equilibrio fra l’attitudine e la sua costituzione, un temperamento calmo e nello stesso tempo contenutamene nevrile, un portamento fiero di cavallo nobile e sicuro di sé, impavido a qualsiasi pericolo, con spalle ed anche che si muovono liberamente e con la destrezza e l’abilità di piegar bene i garretti.

Egli assicura tranquillità al cavaliere ed al falcone, in modo da non arrecare danno ad entrambi. Senza dubbio un cavallo equilibrato, di altezza media, 1.55 – 1.58, ricco di energia, di fondo, di velocità necessaria qualora lo si volesse utilizzare per sostenere le fatiche della caccia, ottimo per galoppare attraverso le campagne, di muoversi con destrezza su suoli impervi, di saltare o di superare con facilità gli ostacoli che incontra.

falconiereacavallosicilianoLa storia della Sicilia ci dà una immagine chiara ed eclatante della falconeria, terra in cui si sviluppò notevolmente questo tipo di caccia: in questa isola amata dal grande Federico II, il falco sarà addestrato per quest’attività con

il cavallo, il quale avrà un ruolo preponderante. L’Imperatore aveva una predilezione per i falchi, congiunta a quella dei cavalli ed importò dal Nord Africa, dalla regione un tempo chiamata Cirenaica molti cavalli ed altrettanti ne fece giungere dal Nord Europa

e li innestò sui cavalli siciliani. Esperto cultore equestre dell’addomesticamento, dell’addestramento, dell’arte e della cura medica veterinaria, li domava non prima dei quattro anni, li preparava per la caccia e per la cavalleria del suo esercito, li voleva di mantello morello o baio scuro e il suo cavallo preferito era un morello.


Il “Tractatus de arti venerandi cum avibus ” scritto dal Sovrano è un chiaro esempio di un trattato dottrinale sulla falconeria, ricco d’informazioni scientifiche, d’insegnamenti e di conoscenze.

Resta mitica la capacità di questi energici predatori dell’aria di divenire amici sinceri dell’uomo, fedeli esecutori della sua volontà, simbolo di forza e di potere. Si racconta che Federico amasse un falco fra tanti che ne possedeva e quando il falco prediletto abbatté un’aquila, sommo emblema del potere di un sovrano, ordinò di metterlo a morte per dare un esempio ai suoi sudditi.


Il significato simbolico dei falchi li renderà di incalcolabile valore .

Nel 1336 il Duca di Nevers e dei suoi amici gentiluomini furono fatti prigionieri da Bagaratte nella battaglia di Nicropoli (oggi Emmaus a 11 km. da Gerusalemme) senza alcuna alternativa di riscatto; solo quando furono offerti 12 falchi dal Duca di Bergogna essi furono rilasciati.

In Francia la falconeria fu tenuta sempre in grande considerazione da Carlo Magno e da Francesco I, che aveva ai suoi ordini cinquanta falconieri e trecento falchi.

In Italia fu celebre la falconeria dei Medici a Firenze. In Persia il re manteneva più di ottocento falchi impiegandoli per caccia grossa, selvaggina come cinghiali, antilopi, asini selvatici.


federicoiiMolte leggende si narrano sui falchi: nel 1500 il Sovrano Carlo V metterà a disposizione degli Ospedalieri l’isola di Malta chiedendo come compenso simbolico annuale un falcone di caccia, di cui l’isola è ricca; l’originale “contratto” darà vita alla leggenda del “falco maltese”, dovuto allo smarrimento di un falco d’oro tempestato di gemme, inviato dagli Ospedalieri all’Imperatore per ricambiare il suo gesto.

All’inizio del XX secolo l’atteggiamento dell’uomo verso i falconi appare oramai completamente rovesciata ed il pellegrino ed i suoi parenti, considerati animali nocivi dai cacciatori di selvaggina e dai guardiacaccia, diverranno oggetto di una caccia follemente distruttiva. Dopo la fase discendente, in cui pochi la praticavano, l’Italia ha ripreso fiato, energia, riacquistando molti appassionati e creandosi molte associazioni che praticano questo particolare tipo di sport.

In questa Sicilia dal sole caldo, dai vivi e colorati profumi della natura, terra di falchi che planano e nidificano tra le montagne rocciose possenti e minacciose e di cavalli che, allo stato brado pascolano indisturbati negli ubertosi campi ricchi di essenze erbacee pregiate, la cultura federiciana dell’isola accoglie con diletto il ritorno di un’antica arte, su di una base prettamente zoologica e di pieno rispetto per le leggi della natura.


Oggi la falconeria viene riproposta dall’ENGEA in un aspetto nuovo, prettamente professionale: il rilancio del falcone con il cavallo, come attività di lavoro, come attività professionale del mondo equestre, potendosi così inserire nelle tante sacre e festività che periodicamente si svolgono non solo nell’isola ma in tutto il territorio nazionale.


BENEDETTO SALAMONE di CASALENI

Responsabile ENGEA Provincia di Messina

Falconeria altezza al potere

Nel 429, quando i Vandali giunsero nell’Africa del nord, Sant’Agostino notò come loro tratti distintivi l’abbondanza di cani, falchi e concubine. Se le concubine destavano scandalo i falchi, semplicemente, erano una sorpresa. Greci e Romani, infatti, non praticavano la caccia con i rapaci, le cui origini sono asiatiche. Primi tra gli europei, i Germani la conobbero attraverso i turbolenti contatti con gli Unni e gli altri nomadi che dilagarono nelle pianure dal Volga al Danubio tra il terzo e il quinto secolo d.C. Fu un colpo di fulmine. Negli Annales fuldenses (l’anno è l’870) si incontra l’espressione cum falconibus ludere, a suggerire che questa caccia era la più vicina al divertimento puro e, all’estremo opposto di quella alle fiere, la più lontana dalla guerra (la caccia al cinghiale non era ludus, ma tutt’al più exercitius).

La falconeria non è stata fin dall’inizio una pratica riservata ai nobili – Widukindo di Corvey (sec. XI) nelle sue Gesta dei Sassoni, scritto intorno al 965, menziona un soldato turingio che caccia di mattina con il suo falco – ed è solo attorno al Mille che essa diventa davvero segno esclusivo della nobiltà. Una delle prime testimonianze proviene dall’arazzo di Bayeux, narrazione iconografica della conquista normanna dell’Inghilterra, dove i più nobili tra i guerrieri a cavallo sono individuabili grazie al falco al braccio. È l’inizio di un’associazione sempre più articolata dei rapaci con l’espressione simbolica delle gerarchie, che culmina con elenchi non più realistici, ma solo simbolici, come quello contenuto nel Boke of Saint Alban (Inghilterra, sec. XV): l’aquila è per l’imperatore, il girifalco per il re, il falco pellegrino per il conte, lo smeriglio per la dama nobile, l’astore per il proprietario di campagna.

Il periodo di massimo interesse per la falconeria è quello compreso tra il Trecento e il Cinquecento. La maggior parte dei manoscritti di trattati dedicati alla materia risale, infatti, a questo periodo. Al limitatissimo vocabolario dell’antichità, il Medioevo contrappone un’autentica inflazione classificatoria. Federico II nel trattato De arte venandi cum avibus considera cinque tipi di falchi (girofalci, sacri, gentiles peregrini, gentiles, layneri), ma la serie completa delle denominazioni medievali dei rapaci da caccia sfiorava la trentina, con una capillarità degna dei moderni ornitologi. Nei trattati la qualifica di nobilissima avis tocca al girifalco, protagonista della caccia alla gru, reputata la più spettacolare e degna dei sovrani. Meno prezioso del girifalco, il falco pellegrino era il rapace più diffuso per la caccia ad alto volo. Come indica il suo nome, il pellegrino era un uccello migratore e veniva catturato mentre, dalla Scandinavia, viaggiava verso sud. È, infatti, dall’Europa del nord che provenivano i rapaci migliori e meglio quotati sul mercato.

C’erano quattro modi per procurarsi i falconi: l’acquisto, il dono, la cattura di un esemplare adulto, il “ratto” dei piccoli dal nido. L’allevamento non era praticabile in quanto con i falchi era impossibile la riproduzione in cattività (essa è stata ottenuta soltanto da pochi decenni e per mezzo dell’inseminazione artificiale). La modalità di cattura più diffusa prevedeva l’impiego di una doppia gabbia, con la chiusura guidata da un laccio, in cui venivano chiusi degli uccellini che avrebbero attratto il rapace. Il commercio, come si è già detto, partiva dall’Europa settentrionale in direzione sud, difficilmente viceversa. Si sa che i cavalieri dell’Ordine Teutonico gestivano dalle regioni baltiche un fiorente commercio di falchi.
L’altro centro di distribuzione europeo erano le Fiandre e fiamminghi erano non solo i p
rincipali mercanti, ma anche molti dei falconieri professionisti stipendiati nelle corti europee. Il falconiere doveva prestare attenzione all’igiene e alla morale personale: non mangiare né aglio né cipolle, lavarsi regolarmente, non essere goloso, bevitore, lussurioso, pigro, irascibile. Gli accessori del falconiere erano il guanto che proteggeva mano e avambraccio (di solito il sinistro per gli Europei e il destro per gli Arabi), un bastoncino per carezzare le piume dell’uccello e una sacca contenente i pezzetti di carne per ricompensare il rapace dopo il buon esito del volo.

L’addestramento del falco era un perfetto esempio di ricerca dell’equilibrio tra natura e cultura, equilibrio, però, che una volta raggiunto si trasformava nella manifestazione del potere della natura alta e aggressiva su quella bassa e passiva, ovvero in immagine del potere dei nobili sui pauperes. Il falconiere era invitato da un lato a seguire la natura, per esempio nella scelta del cibo, dall’altro a plasmarla in modo da stimolare il rapace ad agire anche contro prede più grandi e diverse da quelle che avrebbe ricercato in libertà. Per disciplinare la natura libera del falco si consigliavano strumenti drastici come la fatica, lasciandolo riposare meno del dovuto, e la fame, fornendo razioni di cibo sempre leggermente ridotte. Il giorno precedente la caccia i falchi erano tenuti a dieta. Un altro mezzo di controllo era la privazione temporanea della vista. Il cappuccio tipico dell’iconografia del falcone pare sia stato introdotto in Europa da Federico II dopo il suo soggiorno in Vicino Oriente nel 1228 e 1229 in occasione della crociata. In effetti, il suo è il primo trattato a parlarne.
In precedenza l’unico sistema era la temporanea cucitura delle ciglia (“cigliatura”), che convisse a lungo con il cappuccio (lo stesso Federico II non consiglia la sostituzione, ma solo l’abbinamento delle due tecniche). Le prime lezioni di caccia avvenivano con l’ausilio di esche che potevano essere uccellini handicappati o legati oppure una pelle di lepre riempita di paglia con un pezzetto di carne attaccato sul dorso. Nella seconda fase si passava a uccelli in piena efficienza liberati allo scopo. L’ultima e più complicata parte dell’addestramento era la collaborazione con i cani. Entrambi gli animali dovevano abituarsi alla reciproca vicinanza. I cani, in particolare, dovevano apprendere, nel caso della piccola selvaggina, a bloccare le prede sulle quali il falco si era abbattuto limitandosi a tenerle ferme ed evitando di portarle via.
Lo spettacolo dell’uccellagione risiedeva soprattutto nella contemplazione del volo. L’alto volo era il regno del falco, mentre per la caccia a basso volo si impiegavano l’astore e lo sparviero, il primo preferito in Germania, il secondo in Italia. L’astore, menzionato nelle leggi germaniche, è probabilmente il primo uccello a essere stato usato in Europa. Come sottolineò Pietro de’ Crescenzi, la principale caratteristica dello sparviero, una replica in formato ridotto dell’astore, era quella di volare “il più possibile radente alla terra in modo da non essere visto agli uccelli che vuole prendere. Il volo di questo uccello è molto rapido e di solito esso cattura la preda all’inizio del suo sforzo, mentre dopo il suo volo si fa più lento”. Nei trattati francesi del XIV secolo lo sparviero era l’uccello delle dame che si dilettavano nella caccia alle allodole. In letteratura l’associazione con la dama contribuì a fare dello sparviero una sorta di spalla dei protagonisti nelle scene galanti. La simbologia del rapace, e questo è significativo, legando la donna allo sparviero e il giovane nobile al falco, suggerisce la presenza di una gerarchia, per quanto sfumata, anche nel discorso amoroso: il sesso maschile stava all’alto volo del falco, come il femminile al basso volo dello sparviero.
Rimedi e scongiuri
I trattati di falconeria sono assai attenti alla salute dei rapaci. Questo aspetto veterinario stava particol
armente a cuore all’anonimo compilatore del Trattato del governo de’ falconi, un’antologia trecentesca in volgare che raggruppa brani scelti da testi precedenti. I rimedi sono un miscuglio di esperienza pratica e di pittoresco: per i calcoli gastrici (sintomo: il rifiuto del cibo) somministrare garofani ben tritati; per la febbre (sintomo: il piede caldo) un preparato a base di aloe, grasso di gallina e aceto; contro i pidocchi un bagno in acqua dove sono stati cotti dei lupini oppure una pomata composta di mercurio, saliva, cenere e grasso di maiale. In qualche caso era ritenuta utile una formula di scongiuro, come il verso Volatilia tua sub pedibus tuis, i tuoi uccelli (Signore) tieni sotto i tuoi piedi, da recitare quando il falco metteva le penne.

Dopo la cattura i piccoli falchi venivano rinchiusi in un casotto dove regnava la penombra: stavano appollaiati su una pertica e ricevevano il cibo sempre dalla stessa persona. Gli adulti vivevano invece in una “falconiera”. Stavano legati a pertiche o a un blocco di pietra e il falconiere alloggiava nei pressi e trascorreva molto tempo vicino a loro. La falconiera, stranamente, è un luogo mai descritto con cura nei trattati, che invece dedicano grandi attenzioni alla “muta”, la stanza dove i falchi alloggiavano durante il periodo del cambio del piumaggio, quando era sconsigliato farli uscire a caccia. Scrisse Adelardo di Bath: “Quando metti gli astori in muta prepara la muta in modo che essa riceva la luce del sole per tre ore ogni giorno e che non ci piova dentro”. Ancora più preciso è Bragadino: “La muta deve avere una grande finestra laterale per ricevere il vento chiamato buora, che è moderatamente freddo (…). Questa muta deve essere più illuminata di quella per astori e sparvieri. Al suo interno devono esserci pertiche di legno ben pulite sulle quali legare la zampa se necessario. Il suolo deve essere coperto di sabbia e di sassolini di fiume o di mare e al centro deve trovarsi un pozzetto d’acqua circondato da tre o quattro blocchi di marmo ben puliti”.