Il cane e la selvaggina

Dove portare il proprio cane a caccia? Conoscere i luoghi e sapere se essi ospitino selvaggina è il presupposto per l’esito del lavoro del cane.

Interrogarsi sulla presenza di selvaggina in un determinato luogo porta inevitabilmente a affrontare complessi problemi di biologia e di ecologia. Le specie di fauna selvatica dipendono direttamente dai biotopi, cioè gli ambienti naturali che abitano. Purtroppo la selvaggina che interessa il cane da ferma ha sempre più difficoltà a sopravvivere allo stato selvatico. Fagiano, starna, quaglia e pernici risentono dell’agricoltura intensiva, mentre la beccaccia è vittima della riduzione dei boschi e, siamo onesti, della caccia, soprattutto quella praticata all’estero durante il periodo riproduttivo. La diminuzione delle zone umide colpisce duramente il beccaccino e il frullino. Le nostre campagne sono al giorno d’oggi seriamente minacciate dall’agricoltura intensiva. Moderni metodi agricoli causano la disgregazione e il degrado dei paesaggi tradizionali. L’eccessiva specializzazione delle colture, l’abuso di antiparassitari e fertilizzanti, la meccanizzazione del lavoro e soprattutto la rottura dell’equilibrio naturale tra fertilità e produttività del suolo hanno reso impossibile alla fauna di continuare a popolare le campagne come una volta.

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Beccaccia

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starna
In primavera gli animali devono far spazio alle gigantesche mietitrebbie meccaniche che uccidono i nuovi nati di starne, fagiani e lepri. In autunno è il turno degli aratri che rivoltando la terra nascondendo semenze e germogli e trasformando i campi in lande desolate e sottraendo agli animali preziose fonti di cibo. La diminuzione della fauna non è determinata tanto dalla caccia, quanto dalla riduzione dei biotopi provocata dell’estendersi dell’attività umana (città, strade, impianti turistici e industriali e agricoltura intensiva).
Recuperare questi biotopi impoveriti offre alla fauna la possibilità di trovare rifugio e fonti di alimentazione. Associazioni illuminate e settori del mondo scientifico si stanno adoperando per ridare alle campagne quella naturale capacità di accogliere diverse specie animali attraverso la reintroduzioni di piante, alberi e arbusti e ad una gestione dell’agricoltura più sensibile alle esigenze della fauna. Soltanto quando avremo assicurato alla selvaggina un ambiente in cui possa vivere e moltiplicarsi potremo essere sicuri che il nostro cane da ferma imparerà a cacciare bene.
Il conduttore del cane da ferma non dovrebbe accontentarsi di addestrare il proprio ausiliare su selvaggina di allevamento. Così facendo si alimenta un circolo vizioso che tende a privilegiare le strutture private a discapito dell’ambiente naturale, infinitamente più bello ma soprattutto la reale palestra per la quale il cane da ferma è stato selezionato nei secoli. Un cane addestrato su selvaggina artificiale è come un agonista che non si cimenta mai nella gara per la quale si allena. Quanta soddisfazione dà una beccaccia di passo guidata e fermata con sicurezza istintiva dal cane, che una povera quaglietta che non ha mai visto la luce del sole.

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quaglia

Pernice rossa Alectoris rufa
pernice rossa

La siepe è una soluzione semplice e pratica per realizzare, almeno per quello che riguarda i margini dei campi, questo recupero ambientale. Molti studi dimostrano che molte specie di uccelli, mammiferi, insetti possono beneficiare di questi provvedimenti. Ecco una lista di piante particolarmente adatte a costituire una siepe:
Biancospino, Ciliegio selvatico, Edera, Evonimo, Frangola, Gelso, Lantana, Ligustro, Nocciolo, Pallon di maggio, Pero selvatico, Prugnolo, Rosa selvatica, Rovo, Sambuco, Sanguinello, Spinocervino.

Intervista a Patrizia Cimberio

«Lavoro perché l’ Italia si decida a valorizzare la pratica di Federico II» Nobiltà rapace «Sforza e Gonzaga erano invidiati: spendevano fortune per i loro falchi»

Ci sono nell’ occhio di un rapace dignità e fierezza miste a una forma di sfida introvabile in qualsiasi altro essere vivente: neppure il re dei felini trasmette con il suo sguardo una tale distinzione. La pratica della vera arte della falconeria permette che tra falco e falconiere si sviluppi un legame unico e profondo. Il falconiere che cammina a terra e il falco che vola alto sopra di lui sono complici e partecipi allo stesso tempo dello spettacolo della natura. «Tredici Paesi hanno riconosciuto la falconeria come patrimonio immateriale dell’ umanità e in questi anni mi sono sempre chiesta perché proprio il nostro trascurasse una simile ricchezza culturale. In Italia, Federico II di Svevia scrisse il trattato di falconeria più noto di tutti i tempi, “De arte venandi cum avibus”. Anche gli Sforza e i Gonzaga spendevano fortune per acquistare i falchi e organizzare cacce il cui sfarzo era soggetto di pettegolezzi e invidia in tutta l’ Europa», dice l’ ambasciatrice della falconeria, la novarese Patrizia Cimberio, una delle poche falconiere d’ Italia («non siamo più di una decina, su trecento appassionati»). Vive a Milano, sposata, con tre figli, e viaggia molto. Ma non trascura Lord, il suo falco accudito con altri al «Regno dei rapaci» di Pessano con Bornago. Lo fa volare più volte la settimana, dopo un lungo addestramento. Per lavoro, Cimberio si occupa di valorizzazione dei beni culturali attraverso le nuove tecnologie; è stata la prima in Italia ad avviare iniziative e progetti concreti per riportare alla luce, e far conoscere in ambito internazionale, un’ antica tradizione. La funzione del falco è catturare la preda in volo o a terra e riportarla al padrone, ma oggi la pratica ha perso sempre più l’ aspetto di «ars venandi». La falconeria fa innamorare un numero crescente di appassionati recuperando il suo significato più profondo: il rispetto per la natura, sapersi misurare con qualcosa più grande di noi. Le prime testimonianze di quest’ arte risalgono al periodo assiro-babilonese e ancor oggi viene praticata con passione in oltre 65 Paesi. È giunta in Italia nell’ alto Medioevo, a seguito delle invasioni barbariche, e successivamente tramite i contatti veneziani con l’ Oriente e della corte normanna con il mondo arabo. Oltre all’ importante trattato di Federico II, andato perso durante l’ assedio di Parma del 1248, ma arrivato a noi con la bellissima copia fatta realizzare dal figlio Manfredi e conservata alla Biblioteca Vaticana (e con quella di un altro figlio di Federico, re Enzo, alla Biblioteca Universitaria di Bologna), in Italia sono conservati innumerevoli manoscritti e trattati di falconeria e testimonianze nell’ arte figurativa e nella letteratura. Dante stesso era un falconiere, nella «Divina Commedia» ci sono riferimenti all’ antica arte. Proprio perché riconosciuta come «ars», la falconeria era materia di studio dei giovani principi e contribuiva allo sviluppo delle qualità necessarie per praticarla: intuito, pazienza, perseveranza. E aiutava la comprensione dei complicati meccanismi che regolano la natura. «Giovanni Puglisi, presidente Unesco per l’ Italia, mi ha assicurato che presto anche il nostro Paese farà richiesta di sottoscrivere la falconeria patrimonio immateriale dell’ umanità. Può essere, ad esempio, un ottimo mezzo diplomatico nei confronti dei Paesi Arabi, dove la falconeria occupa un ruolo importante. Tanto che là hanno fondato l’ Adach, Abu Dhabi Authority for Culture and Heritage, di cui sono membro», dice con orgoglio Patrizia Cimberio. E continua: «Anche Paolo Rubini, direttore generale dell’ Ente nazionale per il Turismo, ha visto nella falconeria una possibile via di interessamento turistico-culturale, oltre che commerciale, verso il nostro Paese da parte dei cittadini degli Emirati. Che purtroppo concentrano le loro visite solo a Milano e Venezia».  Il «Regno dei Rapaci», dove Patrizia Cimberio fa volare il suo falco, è uno dei pochissimi centri italiani (sono 5) attrezzati per l’ antica pratica della falconeria.

Schira Roberta

fonte: Corriere della Sera

Risposta di Patrizia Cimberio al video del ministro Zanoni contro la Falconeria

Buonasera,
mi chiamo Patrizia Cimberio e ho lavorato con la IAF e la FACE all’allestimento della mostra sulla Falconeria al Parlamento Europeo di cui parla nel suo video, curando la realizzazione grafica dei 24 pannelli e la traduzione in italiano dei testi degli stessi.

Da quanto ho ascoltato dalla sua intervista, penso che purtroppo non abbia avuto il tempo di leggere con attenzione il testo dei pannelli della mostra, che ben spiegavano cos’è la Falconeria. E’ un peccato che non abbia approfittato della presenza al Parlamento Europeo, per un intera settimana, di un team di falconieri internazionali per approfondire un argomento che immagino le stia tanto a cuore, anche se in un ottica diversa dalla mia, come quello della caccia con il falco.

Probabilmente conoscere di più su questa arte antica 4000 anni che, nel 2010, è stata riconosciuta dall’UNESCO come patrimonio immateriale dell’umanità, non avrebbe cambiato la sua opinione, che rispetto come tale, a proposito della caccia con il falco, ma forse le avrebbe dato una visione differente di quello che è la falconeria.

L’articolo 3 della legge 157/92 vieta tutto il territorio nazionale ogni forma di uccellagione e di cattura di uccelli (oltre che di mammiferi selvatici), nonchè il prelievo di uova, nidi e piccoli nati e specificatamente alla falconeria – uno tre mezzi di caccia consentiti – indica l’utilizzo di soli falchi riprodotti in cattività. Chi non si attiene a queste indicazioni incorre in un reato penale.

Tutti i falchi che in Italia vengono utilizzati per la falconeria sono stati riprodotti in cattività e presentano un anello inamovibile con un numero di riferimento che è riportato sul certificato CITES che deve accompagnare l’acquisto di ogni falco indicandone razza e allevamento di provenienza.
Dopo l’applicazione della legge 157/92, si sono verificati solo rari e isolati casi di falconieri trovati ad utilizzare falchi non in regola, ma il fatto che un singolo individuo abbia agito in modo errato non può essere preso come metro di giudizio per centinaia di falconieri italiani che dedicano ogni giorno tempo, amore, passione e sacrifici veri per qualcosa che è molto di più di una sola azione di caccia e del far volare un falco, ma che è principalmente uno stile ed una filosofia di vita.

Mentre è facile sentire parlare dei falconieri come possibili predatori di nidi, purtroppo ci si dimentica troppo spesso del ruolo fondamentale che hanno avuto, e che hanno, gli stessi falconieri nella conservazione dei rapaci.

L’imperatore Federico II di Svevia nel suo trattato di falconeria De Arte Venandi cum Avibus, scritto nel 1228, dedica oltre la prima metà del testo ad una ricerca, la prima dell’epoca, scientifica e sistematica sull’ornitologia, influenzandone tutti gli studi successivi.

Tutte le leggi più antiche di protezione dei rapaci sono state influenzate e volute proprio dai falconieri che da sempre conoscono l’importanza della protezione dei rapaci senza dei quali la loro arte cesserebbe di esistere. Se ne trovano nella prima raccolta di leggi scritte, attribuita al re Longobardo Rotari o in quella della Regina Eleonora di Sardegna, tanto attenta alla salvaguardia di astori e falchi, che in epoca più moderna il suo nome è stato scelto dal Generale Lamarmora, che si trovava in Sardegna per disegnarne la cartografia, per identificare il falco Eleonorae.
La prima notizia storica sull’inanellamento e il rilascio di uccelli per lo studio e la raccolta di informazioni sulle loro migrazioni risale al 1800, ad opera del Loo Hawaking Club del Paesi Bassi.

Così come il primo falco pellegrino riprodotto in cattività si deve al falconiere tedesco Renz Waller, nel 1940.
Forse, ora che è facile vedere i pellegrini volare anche nelle nostre città, ci si dimentica con troppa facilità come l’uso indiscriminato del DDT abbia causato negli anni ’50 e ’60 un declino a livello mondiale della popolazione dei falchi pellegrini, arrivando quasi alla loro completa estinzione in Inghilterra e negli Stati Uniti.
E sono stati proprio i falconieri, molti di loro anche veterinari ed ornitologi, con i loro progetti sperimentali di riproduzione in cattività e di rilascio in natura ad evitarne l’estinzione.

L’ornitologo Tom Cade, grande appassionato di falconeria, nel 1970 ha dato inizio presso la Cornell University ad un programma di riproduzione del falco pellegrino in cattività con il successivo rilascio in natura e, due anni più tardi, assieme ad altri 4 falconieri, ha fondato il Peregrine Fund. Oggi il Peregrin Fund è una delle più grandi organizzazioni mondiali che si occupa della protezione di oltre 20 specie di rapaci in pericolo nel mondo, molti dei quali nemmeno utilizzati in falconeria, quali il Condor della California, l’arpia, l’aquila pescatrice del Madagascar, il gheppio delle Mauritius, ….
Il Condor della California, dopo la sua estinzione, è stato reintrodotto con successo proprio dal Peregrine Fund in Arizona e Utah.
Tra il 1974 e il 1997 i falconieri del Peregrine Fund hanno allevato e rilasciato in natura oltre 4.000 falchi pellegrini ristabilendone la popolazione nel Nord America.
Ugualmente a quanto accaduto negli USA, i falconieri di Inghilterra, Germania e Polonia hanno portato avanti progetti di successo per la reintroduzione del falco pellegrino nei loro Paesi.

In Mongolia nel 2010 sono stati eretti 5000 nidi artificiali per facilitare la riproduzione del falco sacro, dopo uno studio sperimentale condotto per 5 anni su di una prima installazione di 250 nidi artificiali. Nel 2011 circa 200 falchi sacri hanno scelto di nidificare nei nidi artificiali, permettendo la nascita di 600 pulli che sono stati contrassegnati con un chip per monitorarne spostamenti e migrazioni.

Le tecniche utilizzate in falconeria per l’addestramento dei falchi si sono anche dimostrate le migliori e le più efficaci per la riabilitazione e la reintroduzione dei rapaci selvatici che hanno subito incidenti in natura.

Proprio in questi giorni la IAF – la stessa associazione internazionale di falconeria che assieme alla FACE ha organizzato la mostra al Parlamento Europeo del suo video – è stata invitata a tenere un intervento sul tema “Falconieri e Conservazione” in occasione dell’incontro annuale del CMS (Convention of Migratory Species) che si è appena tenuto ad Abu Dhabi.

Per quanto riguarda la sua seconda affermazione che presenta i falchi usati in falconeria come killer di uccelli di specie protette, si possono fare diverse precisazioni.
Se già in natura un’elevata percentuale delle azioni di caccia dei falchi selvatici finisce in un nulla di fatto e molte delle prede catturate sono comunque proprio gli uccelli più deboli, malati, destinati comunque ad una prossima morte, questa percentuale di insuccesso aumenta indubbiamente nei falchi allevati in cattività da generazioni (e spesso le coppie che vengono messe in riproduzione sono proprio quelle con meno attitudine alla caccia) dove l’istinto della predazione è sicuramente ridotto.

Inoltre un falconiere, fin dalle prime fasi, addestra il proprio falco a riconoscere come preda e ad attaccare solo alcuni determinati tipi di selvaggina in base al proprio territorio, alla disponibilità delle prede stesse e al tipo di caccia che vuole fare. Tra falconiere e falco, ed eventuale cane, si stabilisce con il passare del tempo un rapporto sottile, quasi spirituale, che li rende ‘collegati’, anche se uno con i piedi sulla terra e l’altro in volo libero nel cielo. Il falco sicuramente non riconosce quelle che sono le specie cacciabili o non cacciabili, ma caccia sempre accompagnato da un falconiere che ben le conosce e che gli ha insegnato a cacciarne solo alcune. La difficoltà stessa nel cacciare la selvaggina selvatica che, a differenza del falco in volo – il cui uovo si è schiuso in un incubatrice – è nata e cresciuta in quel territorio e conosce tutti i luoghi dove ripararsi da un eventuale attacco e il fatto che i falchi siano addestrati a riconoscere come prede solo alcune determinare specie, fa sì che la cattura di una specie protetta, sia un evento sicuramente possibile, ma davvero raro e limitato. Indubbiamente un numero infinitesimale rispetto a quegli esemplari di specie protette o particolarmente protette che tutti i giorni sono uccise dalle nostre auto, dalle pale eoliche o dai cavi dell’alta tensione.

Sulla sua ultima affermazione, sul fatto che la caccia, in particolare la caccia con il falco, dovrebbero fare parte solo del passato perché danneggiano la biodiversità, ci si potrebbe confrontare per ore.

L’UNESCO ha riconosciuto la falconeria come patrimonio culturale immateriale dell’umanità proprio perché è una tradizione storica che da 4.000 anni si trasmette in oltre 65 nazioni di generazione in generazione, da padre in figlio, da maestro ad allievo.

Negli Emirati Arabi, dove nel giro di 60 anni si è passati da una vita da nomadi del deserto a quella delle città cosmopolite dagli incredibili grattacieli, la falconeria viene praticata e conservata nella sua essenza più antica proprio come modo per non perdere il contatto con le proprie radici, con la propria storia e con la natura stessa.
Per cacciare con il falco occorre conoscere la natura e le regole che la governano, così ome per addestrare il proprio falco bisogna conoscere la biologia dei rapaci e le loro abitudini e conoscere le prede e il loro habitat.

Sono proprio i paesi dove la caccia ha mantenuto una forte e positiva tradizione, quelli dove la selvaggina è più abbondante in numero e in tipo, proprio per la cura e l’attenzione che i cacciatori pongono alla tutela delle prede stesse e al territorio.

Sicuramente non l’avrò convinta sul fatto che la falconeria sia una delle forme di cacce meno invasive, più sostenibili e vicine alla natura, né era mia intenzione cercare di convincerla. Sperò però che alcuni dei pensieri che ho voluto condividere con lei, e in cui credo, possano essere uno spunto per nuove riflessioni e possibili punti di contatto.

La tutela dei rapaci e della biodiversità che sono tanto importanti per lei, sono essenziali anche per la sopravvivenza futura della falconeria.

Ringraziandola per l’attenzione.
le porgo i miei più cordiali saluti.

Patrizia Cimberio (p.cimberio@gmail.com)