Il Girifalco

La vita negli ambienti selvatici pone continuamente ardue sfide, richiede grandi doti naturali, temperamento, capacità di adattarsi alle circostanze e ai tipi di habitat di cui si dispone, alcuni talmente estremi e desolati da sembrare impossibili da affrontare per qualsiasi predatore.
Siamo negli sconfinati e spettrali paesaggi della tundra artica, velati di nebbia e silenzi che sembrano estendersi all’infinito, dove le estati sono brevi e gli inverni lunghi e glaciali, con poche ore di luce a disposizione per cacciare e interminabili notti di inattività e gelo che costringe ad accumulare altissime riserve di energia in un ambiente con la più bassa concentrazione di prede del pianeta, per la maggior parte dell’anno ricoperto da una spessa coltre di neve che inibisce ancor più la vista di scenari già poveri di contrasti.
Lungo le inaccessibili coste scoscese, le potenziali prede sono solo i veloci uccelli marini mentre gli altopiani interni offrono una più ampia gamma di prede per una breve estate, che coincide con la stagione riproduttiva. Durante il lunghissimo inverno l’alimentazione dipende quasi esclusivamente dalle pernici bianche.
Queste condizioni eccezionali hanno plasmato un predatore eccezionale, il più grande, aggressivo e potente falcone al mondo.
La popolazione più numerosa vive nelle aree dove tutt’oggi sussistono le condizioni dell’ultima era glaciale tra Alaska , Canada, Groenlandia, Islanda, Finnoscandia e Siberia.
Il girfalco è un favoloso predatore deserticolo perfettamente adattato alle latitudini artiche.
Il piumino è più fitto rispetto a quello degli altri falchi e ricopre completamente i tarsi; l’acuità visiva è di poco inferiore a quella del falco pellegrino ma in compenso dispone di una migliore visione crepuscolare che gli consente di individuare meglio i contrasti acromatici e di cacciare nell’oscurità invernale.
La scarsità di opportunità predatorie lo hanno reso fortemente territoriale (la coppia domina un territorio esclusivo che può coprire 30 km quadrati), oltre che particolarmente intelligente e strategico; la ricerca della preda viene effettuata solitamente a bassa quota seguendo il profilo del terreno e aggirando gli ostacoli per sfruttare l’effetto sorpresa;
in estate i maschi sono spesso stati osservati catturare piccoli passeriformi alle prime armi nell’area intorno al nido, piccole scorte di energia procurate senza dispendi.
Come tutti i falconi sono specializzati nella caccia aerea di altri uccelli ma si sono perfettamente adeguati anche alla predazione dei mammiferi di piccole e medie dimensioni.
La incredibile adattabilità a questi climi è testimoniata dalle recenti scoperte sulle sue abitudini invernali, rimaste a lungo un segreto: i ricercatori hanno osservato che molti girfalchi dell’alto Artico svernano e trascorrono lunghi periodi di tempo in mare vivendo e cacciando uccelli marini sulla banchisa polare, lontanissimi dalla terraferma.
Il volo del girfalco è veloce e alterna potenti e lenti battiti d’ala a brevi fasi di planata al modo dell’astore, a cui assomiglia per morfologia più che agli altri falconi: l’ala è più ampia e più larga, la coda più lunga, lo sterno più profondo e i muscoli pettorali più sviluppati.
Nonostante il suo notevole peso, l’ampiezza delle ali determina un carico alare inferiore a quello dei pellegrini e solo leggermente più alto rispetto al falco sacro; abbinato alla straordinaria potenza del muscolo pettorale permette al girfalco di sviluppare una velocità in volo orizzontale che può raggiunge una punta massima di 120 km orari. Solo il falco sacro, praticamente la sua variante meridionale, riesce a competere.
Le prede di terra vengono catturate generalmente con le tecniche d’inseguimento sulla coda, come il falco sacro, mentre per catturare gli uccelli marini si comporta come un pellegrino sebbene con un approccio più diretto; le sue picchiate, che possono raggiungere i 200 km orari, partono da quote più basse e sono meno spettacolari ma più persistenti, arrivando a sfiorare il terreno per involare una preda.
Come i pellegrini, anche i girfalchi attaccano con traiettorie modellate dalla legge di guida di navigazione proporzionale (A), che comanda la virata in proporzione alla velocità angolare della linea di visuale sul bersaglio, con un guadagno di traiettoria ad ogni virata. Tuttavia, questo guadagno è significativamente superiore nei pellegrini rispetto ai girfalchi, che riescono a sviluppare una svolta in planata più lenta e un percorso di intercettazione più lungo; probabilmente questo è dovuto a un adattamento ecologico, perché un basso valore di guadagno di guida diminuisce il rischio di superamento, favorendo l’inseguimento esplosivo su breve distanza così come i lunghi inseguimenti ad alta velocità, le specialità dei girfalchi: l’assalto parte diretto e una volta iniziato non lo abbandoneranno per nessun motivo, continuando ad attaccare con quella determinazione, intensità e facilità d’azione che meravigliosamente li caratterizzano.
Quando incalza la preda, il girfalco sfrutta la strategia dell’inseguimento classico (B) che, manovrando per mantenere l’obiettivo ad un angolo costante del campo visivo, gli fornisce il minimo tempo di intercettazione necessario: la preda resta immobile al centro del campo visivo e diventa sempre più grande e dettagliata man mano che si avvicina; allo stesso modo l’attaccante non si muove dalla prospettiva della preda che, a causa dell’angolo obliquo del percorso del rapace, non riesce a percepirne la posizione esatta.
Grazie alla potenza e alla velocità che riesce a sviluppare, il girfalco insegue la preda secondo la traiettoria più diretta anche per lunghissime distanze, con curve di adattamento poco profonde, arrivando progressivamente a raggiungerla fino a scavalcarla per poi tagliarne repentinamente la traiettoria con un colpo diagonale, ghermendola con gli artigli e finendola a terra con unico colpo di becco; spesso non tenta neanche di afferrarla ma la schianta direttamente al suolo.
Se il primo assalto fallisce insisterà risalendo di potenza sulla coda per poi scaricare tutto il suo peso direttamente sulla preda, con effetti devastanti anche da quote relativamente basse.
Il girfalco si presenta in tre principali varianti cromatiche, chiara, grigia e scura, con una tale presenza di sfumature intermedie (anche all’interno della stessa covata) che per molto tempo gli ornitologi hanno pensato a una vera e propria mutazione morfologica tra sottospecie, riferendosi erronemente ai tre gruppi come ‘forma’ (‘morph o forma chiara’ oppure ‘morph o forma scura’); in altri casi veniva utilizzata la dicitura ‘fase chiara’ o ‘fase scura’, che suggerirebbe però una variazione di colore nel tempo dello stesso individuo.
Nel caso del girfalco si parla sostanzialmente dello stesso falco il cui piumaggio presenta delle semplici varianti cromatiche determinate da connotazioni geografiche specifiche: tutte le popolazioni discendono dalla paleo-sottospecie Falco rusticolus swarthi e sono il risultato dell’isolamento geografico in tre diverse aree separate tra loro durante l’ultima era glaciale, con la variante bianca nella Groenlandia settentrionale, la melanica nella zona del Labrador e l’originale variante grigia limitata all’area eurasiatica. Quando il ghiaccio si ritirò, le popolazioni si sono incrociate fino a produrre l’attuale gamma e distribuzione: la variante bianca, o con uno schema di sbarramento minimo, è quella alto-artica (Groenlandia e nord-est del Canada), la variante grigia è basso-artica (Islanda, Fennoscandia, Russia) e la variante scura è sub artica (Groenlandia e Canada meridionale, Nord degli U.S.).
Il colore nero ė legato al sesso e si presenta principalmente nelle femmine; sembra che risulti difficile per gli allevatori ottenere maschi più scuri del grigio ardesia.
Come gli altri falconi, i girfalchi non costruiscono nidi ma semplicemente sfruttano gli incavi delle pareti rocciose che riutilizzano anno dopo anno; in molti casi possono essere utilizzati più o meno a intermittenza per centinaia e addirittura migliaia di anni.
La datazione al carbonio ha rivelato un nido ancora in uso a Kangerlussuaq, nella Groenlandia centro-occidentale, di un’età compresa tra 2.360 e 2.740 anni.
Il girfalco è da sempre il più ambito tra tutti i rapaci di falconeria.
Grazie alla sua intelligenza ha la capacità di sviluppare un forte legame con il falconiere tanto che nelle prime fasi dell’addestramento si può procedere molto velocemente (tranne che per il volo a monte, che generalmente recepisce con più fatica rispetto al pellegrino) e anzi molti esperti falconieri insistono che per ottenere un buon girfalco da caccia sia fondamentale il lavoro di muscolamento e di esperienza diretta sulla preda durante il primo anno di età quando sta ancora sviluppando, oltre che la muscolatura, il particolare temperamento nella caccia.
I falchi tendono a standardizzare con il tempo le modalità di attacco con le quali ottengono più successi, mentre da giovani possiedono una maggiore plasticità mentale; per i pellegrini questa finestra di tempo è generalmente più ampia rispetto ai girfalchi, che maturano più velocemente e possono essere riproduttivi già al secondo anno di età.
Il girfalco ha bisogno di un esercizio costante per mantenere la potente muscolatura perchè, come per gli accipiter, perde tonicità e vigore più velocemente rispetto ad esempio al falco pellegrino.
Generalmente ha anche bisogno di più spazio per cacciare perché la potenza di volo è così sviluppata e la sua determinazione così radicata che può inseguire orizzontalmente una preda per chilometri prima di catturarla o di decidere di abbandonare e tornare dal falconiere.
Adattato ai climi rigidi e secchi, può diventare piuttosto problematico gestire un girfalco quando vive in climi caldi e umidi in quanto sviluppa una particolare vulnerabilità a patologie quali la tricomoniasi, l’aspergillosi e, data la sua mole, il bumblefoot.
Tutti elementi che vanno considerati prima di accostare la magnificenza del falco dei re.
                   Lara Flisi

Sua Maestà, L’Aquila Reale

Il nome dell’aquila reale si ispira alla magnifica cresta di piume dorate che le adornano il capo come una corona, ma ci sono molti altri motivi per cui da sempre viene considerata la regina dei cieli.
Ciò che la definisce è l’intelligenza e la memoria straordinarie, la sicurezza di sé, la consapevolezza della sua forza, la capacità di osare in qualsiasi situazione, che sia un cielo tempestoso, una predazione pericolosa, la difesa del territorio o della preda, quando la sovrasta alzandosi sulle zampe a petto in fuori e con la cresta ben alzata, perché sia chiaro che verrà protetta con vigore.
Parte della sua aggressività deriva dal carattere spiccatamente territoriale e da ciò che percepisce come suo territorio di approvvigionamento, che sia una vallata, una voliera o il pugno di un falconiere: definito un territorio, l’atteggiamento verso chi riconosce come intruso è sempre di sfida e l’unico modo per stabilire un rapporto di reciproca fiducia, che potrebbe diventare profondissimo per la sua propensione a legarsi a un compagno per tutta la vita, è quello di dimostrarle la stessa sicurezza o tenderà sempre ad avere un atteggiamento prevaricante.
Le aquile reali solitamente sono i rapaci più grandi dell’areale in cui vivono e mantengono alcuni dei più vasti home range conosciuti tra gli uccelli, che possono variare secondo l’abbondanza di cibo e le preferenze dell’habitat da 20 a 200 kmq.
I territori di caccia sono esclusivi della coppia e gli intrusi sono avvertiti, ai margini degli areali piuttosto che nelle vicinanze del nido, con potenti display di minaccia (67% dei maschi e 76% delle femmine) che includono il volo ondulato, soprattutto durante il periodo di pre-deposizione a fine inverno,e il volo diretto aggressivo con sbattimenti di ala esagerati.
Solitamente questi avvertimenti aerei sono più che sufficienti per inibire qualsiasi tipo di uccello e molto raramente arrivano ad agganciarsi seriamente rischiando di ferirsi.
Tra tutte le aquile è quella con la più spiccata propensione alla caccia, che sfrutta in modo incredibilmente opportunistico; praticamente tutto quello che si muove può essere classificato come una preda. All’interno del loro immenso areale sono state registrate oltre 400 specie di vertebrati, principalmente piccoli e medi mammiferi (84%) e uccelli di taglia media (15%); nel periodo invernale quando molte tipologie di prede sono in letargo o ai minimi della popolazione può ricorrere allo sfruttamento delle carcasse.
Questi predatori apicali, che possiedono il più sofisticato sistema visivo del regno animale e possono permettersi di guardare direttamente perfino il disco solare, sono strateghi brillanti e cacciatori irriducibili a volte al limite dell’incoscienza, con l’aggressività e la potenza di un gigantesco astore, la velocità di uscita di curva di un falco pellegrino e l’abilità di veleggiare delle poiane, in grado di combinare una miriade di strategie di attacco in base alle condizioni climatiche, alla topografia, al tipo di preda e alla sua strategia di fuga.
Possono attaccare una volpe sprovveduta planando senza battito d’ala da un alto posatoio come scendere in picchiata e afferrare al volo un grande migratore, pianificare un agguato a una marmotta nei pressi della sua tana o lanciarsi in un potente inseguimento sulla coda di un capriolo.
Non è raro vederle stanare un coniglio da una cava o un giovane camoscio dalle zampe della madre; se il branco è troppo serrato e non lascia possibilità di manovra ha la pazienza di aspettare da un posatoio nascosto che si presenti il momento giusto.
Considerate le notevoli dimensioni è incredibile la capacità che dimostrano nel veleggiare ad alta quota, sparire in un attimo dal cielo e ricomparire controluce da una direzione d’intercettazione del tutto inaspettata: quando la preda viene individuata e l’aquila inizia a uscire da una termica per abbassarsi non lo fa orizzontalmente ma continuando a costeggiarla; poiché le termiche sono circondate da correnti discendenti si crea una zona piuttosto tumultuosa dove la direzione del movimento si inverte in poco spazio e dal basso diventa difficile capire se l’aquila si trovi sempre alla stessa altezza o se si stia effettivamente abbassando finché la sagoma non diventa abbastanza grande, ma a quel punto partirà con una planata d’intercettazione in grado di prevedere con incredibile precisione le vie di fuga della preda; se la traiettoria non è ottimale, invece di incalzarla da vicino e sprecare inutilmente energia la sopravanza fingendo di allontanarsi quindi svolta repentinamente sfruttando la velocità d’uscita dalla curva per coglierla di sorpresa e afferrarla con una pressione di 70 kg per cm², oltre tre volte la forza massima di una mano umana.
La zampa è dotata di quattro formidabili artigli e si adatta al tipo di preda che afferra: un piccolo animale viene schiacciato nella presa degli artigli sovrapposti mentre per afferrare animali più grandi si allarga ponendo automaticamente gli artigli in posizione di perforazione.
La planata può seguire una traiettoria più o meno perpendicolare in base alla situazione: di solito le prede che corrono e che comportano un inseguimento aggiuntivo vicino al suolo, come i mammiferi, vengono attaccate in diagonale per sfruttare la velocità acquisita in planata e lanciare un eventuale inseguimento mentre i grandi uccelli migratori come oche e gru possono essere attaccati verticalmente per inibirne le vie di fuga, con picchiate che possono raggiungere i 200 km orari; questa tecnica molto dispendiosa viene sfruttata raramente perché per essere efficace l’aquila deve raggiungere un vantaggio di quota su una tipologia di prede che tende a guadagnare collettivamente altezza ad ogni tentativo di avvicinamento.
La maggior parte delle catture avviene a terra, partendo da un posatoio elevato o direttamente in volo.
L’attacco a una preda isolata in uno spazio aperto può partire anche da distanze di oltre un chilometro: si avvicina in planata da un’altezza di 50-100 metri con la velocità che aumenta man mano che le ali si chiudono, colpendola direttamente oppure sorvolandola e intercettandola con un’ampia curva; appena prima dell’impatto i piedi vengono spinti in avanti con tale potenza che arrivano sulla preda con una velocità del 10-15% in più rispetto al resto del corpo, come gli astori.
Con una preda elusiva a portata di tana tutto si gioca in pochi istanti e sfrutta soprattutto l’effetto sorpresa: si avvicina sottovento con volo radente a pochi metri dal suolo e con un angolo inferiore ai 30 gradi, sfruttando magistralmente le ondulazioni del terreno e il basso profilo frontale, con ali e coda allineati in un’unica “ala delta” per sostenere il volo e nascondersi alla vista della preda, attività tutt’altro che semplice per un uccello della sua portata; se viene individuata prima della chiusura inizia a battere potentemente e lancia un inseguimento classico fino a 80-90 km orari, sfruttando la legge di guida di navigazione proporzionale.
La caccia degli ungulati come camosci, stambecchi e caprioli può essere molto laboriosa e richiedere da pochi secondi a oltre 15 minuti: generalmente sorvola il branco per metterlo in fuga e creare l’opportunità di selezionare l’attacco, di solito gli individui più giovani, raramente quelli che possono sembrare malati, quindi parte in planata per lanciare l’inseguimento e atterrare sulla schiena o sul collo della preda, stringendo con gli artigli per tentare di perforare organi vitali o causare shock tramite l’impressionante pressione esercitata su ossa e cartilagini. La “cavalcata”, con le ali spiegate per mantenere l’equilibrio, può durare anche diversi minuti fino a quando la preda non crolla a causa di esaurimento, shock o lesioni interne.
La cattura degli ungulati adulti è eccezionale ma dimostra tutta l’audacia dell’aquila reale perché spesso predatore e preda restano avvinghiati in una rovinosa caduta senza controllo lungo le scarpate rocciose. Questi attacchi di solito si verificano nel tardo inverno o all’inizio della primavera, quando le altre prede disponibili sono scarse nella maggior parte dell’areale e le aquile non devono trasportare le prede al nido.
Quando insegue volpi e coyote di solito approccia da dietro, lungo l’angolo cieco del mammifero, supera e sferra l’attacco lateralmente, sfruttando la potenza dell’impatto per scaraventarli al suolo o agganciarli al volo e trascinarli, mentre una zampa ghermisce il muso per inibirne il morso. Il lupo invece viene approcciato sempre da dietro.
La loro astuzia è evidente anche quando cacciano in coppia: l’inseguitore (solitamente il maschio) distoglie l’attenzione della preda cercando di indirizzarla verso il posatoio dove la compagna è in attesa oppure sferrano attacchi alternati da diverse elevazioni e direzioni, come una coppia di poiane di Harris.
Gli uccelli hanno escogitato diversi modi per risparmiare sul costoso fabbisogno energetico del volo, soprattutto per sostenere i tratti di lungo corso delle migrazioni; i piccoli uccelli sono abbastanza leggeri da poter rimanere in volo sbattendo rapidamente le ali e sfruttando le turbolenze atmosferiche, un’attività troppo dispendiosa per i grandi uccelli migratori, che fanno affidamento su altri tipi di volo, librarsi e planare. Le formazioni a V di gru e oche sono un esempio familiare; avvoltoi e fregate utilizzano prevalentemente le correnti ascensionali termiche, i condor andini seguono le correnti orografiche, i procellariformi sfruttano più spesso il volo dinamico.
Questi grandi veleggiatori possiedono un muscolo pettorale costituito da uno strato profondo e da fibre lente, associate comunemente al tipo di volo veleggiato perché ritenute più efficienti nelle contrazioni isometriche utilizzate durante la postura di volo e perché consentono ai tendini di immagazzinare energia elastica.
Il muscolo pettorale e gli altri muscoli della spalla dell’aquila reale invece presentano poche o nessuna fibra muscolare lenta. Più che per le lunghe tratte di volo, il muscolo pettorale dell’aquila, che può arrivare a quasi il 50% del suo peso, sembra costruito per la caccia, per le progressioni e la potenza esplosiva del battito, in grado di sollevare oltre al notevole peso dell’animale (una femmina può raggiungere i 6-7 chili) quello aggiuntivo di una preda di pari dimensioni.
Eppure sono volatrici impareggiabili; di norma occupano solo tra il 3 e il 15 percento del loro tempo in volo, ma quando si librano sono le regine indiscusse, in grado di sfruttare regolarmente tutte le modalità di navigazione possibili alternandole con disinvoltura e con un’abilità senza uguali nei cieli.
Viaggiano a una velocità di crociera di circa 45-50 km orari con le ali tenute in una leggera forma a V e le remiganti secondarie dirette verso l’alto per ridurre la resistenza.
Il volo battuto di solito consiste in 6–8 battiti d’ala profondi, intervallati da 2–3 secondi di planate, con ali e coda tenute sullo stesso piano e le punte delle primarie aperte come dita di una mano per ottimizzare il flusso d’aria sulle ali e ridurre la resistenza.
La coda può fungere da timone per compensare i venti trasversali o essere allargata per aumentare la portanza o diminuire la velocità in fase di atterraggio, quando anche le remiganti secondarie vengono spostate verso il basso per aumentare la resistenza.
Il volo dell’aquila sembra così naturale da sembrare semplice e lineare per un osservatore da terra; in realtà sta navigando in un flusso d’aria strutturato e in costante divenire, con movimenti verticali e orizzontali, vortici e turbolenze di varie dimensioni e velocità, uno scenario che mette alla prova qualsiasi tipo di velivolo umano. Al contrario, per le aquile non sono affatto un ostacolo e anzi trovano la loro massima espressione proprio in queste condizioni: invece di complicare le operazioni di volo, le termiche più potenti vengono sfruttate in scioltezza per guadagnare quota, mentre le turbolenze incubo di ogni pilota sono per lei una fonte di energia che utilizza per aumentare la velocità.
Recenti studi hanno riscontrato un modello altamente irregolare e fluttuante nelle accelerazioni dell’aquila reale in volo che ricorda le tipiche traiettorie delle particelle nei flussi d’aria turbolenti; in un lasso temporale compreso tra 0,5 e 10 secondi, che si traducono in circa 1 – 25 battiti d’ala, le accelerazioni dell’aquila e la turbolenza atmosferica erano completamente sincronizzate. Per avere un’idea di queste accelerazioni, i passeggeri che viaggiano a bordo di un volo commerciale sperimentano un’accelerazione inferiore a 0,1 g, quelle delle aquile superano 1 g.
Per alzarsi di quota e spostarsi nello spazio con la massima efficienza e il minimo dispendio di energia, il vero dominio delle aquile, sfruttano sostanzialmente due tipi di correnti ascensionali, le correnti termiche correlate a temperature calde e topografia piatta, come una vallata, e le correnti orografiche, correlate a condizioni meteorologiche ventose e pendii accentuati.
L’utilizzo dello spazio aereo in cui viaggiano o stazionano solitamente le aquile, tra i 50 e i 3.500 metri di altezza, è strettamente collegato alla topografia terrestre sottostante perché particolari caratteristiche topografiche hanno maggiori probabilità di fornire un sollevamento energetico del vento; i nidi e i posatoi di avvistamento sono sempre in prossimità di questi fenomeni.
Le aquile reali possiedono una mappa mentale per noi inimmaginabile che permette loro di “vedere” in un modo a noi sconosciuto questo straordinario scenario di masse d’aria che si scontrano, vorticose turbolenze, bolle e colonne di varie dimensioni che si staccano dal suolo, venti direzionali che risalgono lungo i declivi, e sono in grado di utilizzarli tutti superbamente.
Di norma, quando sono disponibili correnti ascensionali termiche, le aquile le utilizzano perché sono l’ascensore più veloce e potente a disposizione (e anche le più difficili, per noi umani, da gestire): girano all’interno di queste potenti colonne di aria per guadagnare quota e quando la portanza della termica è in esaurimento la abbandonano planando fino a quella successiva, guadagnando progressivamente in altezza e velocità.
Le correnti termiche si formano quando l’energia del sole riscalda l’aria sulla superficie terrestre e la differenza di temperatura al suolo la fa salire; maggiore è il contrasto tra terreni vicini e maggiori sono le possibilità che si formi uno strato limite termico: i campi arati sono un ottimo esempio quando circondati da terreni meno idonei a trattenere il calore, come altri campi non arati, prati o boschi. Nelle primissime ore dell’alba l’aria è praticamente immobile, condizione ideale per una normale planata; dopo un paio d’ore iniziano a distaccarsi le prime piccole bolle che nella tarda mattinata aumentano e possono raggiungere i 30-50 metri di diametro, distaccandosi in modo sempre più ravvicinato fino a formare, nelle ore di massima insolazione, potenti colonne continue e piuttosto strette, dove l’ascendenza è massima verso il centro e minore man mano che si avvicina al margine, le condizioni più difficili da gestire se non sei un’aquila reale. Nelle termiche più grandi non è raro trovare due o più noccioli distanti anche decine di metri.
Nelle ore pomeridiane le colonne si allargano e raggiungono anche parecchie centinaia di metri di larghezza perdendo progressivamente potenza fino a spegnersi completamente al calare del sole.
Le ore di maggiore attività in volo delle aquile, non a caso, sono le ore centrali della giornata, tra le 11 e le 14, quando le spinte termiche sono al massimo della potenza.
La stabilità dell’aria è determinante: aria instabile significa termiche frequenti e che raggiungono quote elevate; in una giornata instabile le termiche hanno la tendenza a svilupparsi in ampie e numerose colonne raggiungendo quote molto elevate e deformandosi talvolta in veri e propri “gomiti”, mentre in una giornata stabile le ascendenze sono molto più rare, isolate e tendono a mantenere la forma di bolla, ampia anche un centinaio di metri; le turbolenze che si generano possono essere anche notevoli, ma non raggiungono mai quote elevate.
Con il vento molto debole l’aquila cercherà di salire sotto la verticale della nube, leggermente spostata nella direzione del sole; con vento più sostenuto invece calcola l’effetto di scarrocciamento, tanto più ampio quanto maggiore è la forza del vento; per trovare le termiche infatti è molto importante conoscere la direzione del vento al suolo: qualsiasi ostacolo o dislivello, per quanto modesto (collinette, boschetti isolati o filari di alberi) che costringa uno strato limite termico ad alzarsi può funzionare da punto di innesco; in queste condizioni la termica si staccherà sottovento e non sulla sua verticale.
Un pendio montano invece innesca le termiche più velocemente e lungo la verticale; Il pendio ideale è esposto ai raggi del sole, è il più lungo possibile e idealmente inclinato di almeno 25 gradi: in questo modo la termica, salendo, rimane aderente al pendio e a differenza delle termiche che si formano in pianura, l’aria continua a riscaldarsi anche mentre sale poiché riceve calore durante lo scorrimento sul pendio.
Siccome dipendono dalla topografia sottostante e a causa della loro dissipazione da parte dei forti venti, le termiche sono molto variabili; quando non sono sufficientemente potenti o quando la velocità del vento aumenta, l’aquila sfrutta il volo orografico.
Il sollevamento orografico è generato da pendii che deviano verso l’alto i venti orizzontali, quindi è un fenomeno che si concentra lungo le dorsali dei sistemi montuosi, dove si verifica il massimo slancio, e si ritiene che grazie alla loro capacità di generare sollevamento anche in condizioni di vento debole o temperature fresche fornisca le condizioni più sfruttate dai grandi uccelli per la migrazione autunnale a lunga distanza. Questa deviazione è di solito invisibile a occhio nudo, ma nelle giuste condizioni atmosferiche può venire evidenziata dalla formazione di nubi lenticolari che non si spostano col vento ma rimangono stazionarie
sottovento all’oggetto che le ha generate. Questo tipo di correnti sono quelle principalmente utilizzate nel periodo invernale, fino ai primi mesi di marzo, sono meno potenti delle termiche e le aquile raggiungono altitudini inferiori.
La capacità di passare agevolmente da una modalità di volo all’altra consente alle aquile spostamenti molto più lunghi, anche 400 chilometri al giorno, con costi energetici minimi. Per avere un’idea dell’efficienza di questa strategia, un’aquila reale è stata seguita con sistema GPS che ha dimostrano come utilizzi ripetutamente le onde gravitazionali per guadagnare e convertire l’altitudine in distanza orizzontale mantenendo una rotta coerente e come abbia generato energia sufficiente dall’atmosfera per supportare la distanza di volo percorsa.
Di norma, quando erano disponibili correnti ascensionali termiche, l’aquila le usava, mentre quando la radiazione solare era bassa o quando i venti trasversali da est a ovest erano alti venivano sfruttate le correnti ascensionali orografiche.
Su una tratta di 2 ore l’aquila ha eseguito in totale 86 cerchi, con diametri approssimativi compresi tra 30 e 40 metri e una durata media di 22 secondi. In 85 di questi cerchi ha raggiunto un guadagno medio di quota di circa 37 m per ogni cerchio, con un guadagno massimo all’interno di un singolo cerchio di +70 m e un cumulativo di +3227 m di quota. Solo in un episodio su 86 non è riuscita a guadagnare altezza: passare tra diversi tipi di sovvenzione aerea girando in quota ottantasei volte in sedici episodi mantenendo una direzione costante verso una destinazione predeterminata richiede una capacità di navigazione altamente sofisticata che pochissimi uccelli al mondo possono vantare.
Quando si vede un’aquila costeggiare i costoni delle montagne avanti e indietro ad altezze relativamente basse in genere sta cacciando e sfruttando i venti dinamici che si formano quando correnti di almeno 20-30 km orari investono perpendicolarmente una catena montuosa. Questo tipo di volo, così semplice e intuitivo per le aquile, può riservare brutte sorprese ai volatori umani perché il vento spinge proprio verso il monte e la zona di sottovento, ricca di rotori e di discendenze, possiede una notevole forza di disturbo.
Le condizioni atmosferiche estreme dei luoghi impervi deputati a suo reame indiscusso hanno plasmato l’essenza dell’aquila reale, che non si limita ad adattarvisi ma le sente, le anticipa e le domina completamente in un modo che sua maestà non ci ha ancora svelato.
“Quando vedi un’aquila, tu vedi una parte del genio, alza la testa!” (William Blake)
Al maestro falconiere Roberto Mazzetti
                                                                   Lara Flisi

I Falchi pellegrini a Caccia

I PELLEGRINI VANNO A CACCIA

falco pellegrino
falco pellegrino
In natura i falchi pellegrini sfruttano diverse tipologie di attacco in base al territorio e alle prede che hanno a disposizione, dai piccoli-medi passeriformi, specializzazione dei maschi, ai grandi uccelli acquatici delle dimensioni di un germano (mai i cigni e le oche), riservati soprattutto alle femmine.
Date le molte variabili da considerare, per i ricercatori è difficile confrontare empiricamente la percentuale di successo delle diverse tecniche utilizzate e soprattutto capire come la strategia della “picchiata”, una conquista evolutiva più recente rispetto all’agguato e all’inseguimento, preferiti soprattutto dalle sottospecie costiere come p.Cassini e p. Pealei e nordiche come p.Calidus, sia effettivamente la più efficace anche in considerazione dei requisiti fisici e cognitivi estremi che richiede, della potenziale pericolosità dell’impatto e della sua dispendiosità in termini di energia impiegata.
A parità di volume il falco pellegrino è il più pesante e compatto tra i falconi, con un carico alare maggiore rispetto a quello, per esempio, del falco sacro e in volo battuto orizzontale, con i suoi 4,4 battiti al secondo, può raggiungere al massimo i 100-120 km/h, non sufficienti per sostenere un inseguimento del più resistente colombaccio (5,2 battiti/sec), per battere in velocità un’anatra o in manovrabilità uno storno.
Per essere competitivo con prede più agili o resistenti o veloci di lui in volo orizzontale, il pellegrino ha imparato a sfruttare un’altro tipo di velocità, sviluppando una tecnica di “caduta controllata” da grandi altezze che può superare i 350 km/h.
Gli uccelli seguono soprattutto tre tipi di traiettorie: volo in linea retta, svolte ampie e regolari, virate a scatti e il falco deve essere in grado di progettare una curva tale da riuscire a catturarli in una di queste situazioni. Generalmente quando la potenziale preda si muove in linea retta, l’altezza dell’attacco è inferiore rispetto all’altezza che serve al falco per intercettare un uccello che procede con bruschi cambiamenti di direzione: la più elevata velocità infatti gli conferisce un grande vantaggio aerodinamico perchè è in grado di sviluppare rispetto alla preda una maggiore accelerazione in minor spazio e una migliore capacità di manovra, data dall’ adattamento di ali e penne a gestire le velocità estreme: particolarmente rigide sono le remiganti addette alla manovrabilità nella fase finale, con bordi perfettamente lisci per ridurre l’attrito e consentire le eventuali correzioni di rotta con minimi movimenti.
falco pellegrino
falco pellegrino
Grazie a un tipo di “navigazione proporzionale” il falco in picchiata rimane in costante linea di collisione con l’obiettivo: se l’angolo sulla linea visiva cambia, il falco vira a una velocità maggiore e proporzionale a quel cambiamento, guadagnando sempre maggior velocità rispetto all’obiettivo.
Durante la fase iniziale della caduta il falco adotta la caratteristica configurazione ” a goccia” con le ali completamente adese al corpo per offrire la minore resistenza possibile all’aria e sviluppare la massima velocità.
Gran parte del successo dell’attacco dipende dalla manovrabilità necessaria nella seconda fase, quando il falco inizia ad uscire dalla picchiata.
All’ aumento dell’angolo di attacco corrisponde una maggiore resistenza dell’aria, quindi il falco porta le ali in posizione ” a coppa”, con le primarie orientate verticalmente e leggermente staccate dal corpo, in modo che parte della portanza venga scaricata lateralmente.
Subito prima dell’impatto il falco decelera rapidamente allineando la punta delle primarie all’asse del corpo (forma a M) ma mantenendo comunque una velocità sufficiente per non stallare ed avere eventualmente la possibilità di rimontare per un secondo attacco nel caso il primo andasse a vuoto
L’altezza da cui parte la caduta è condizionata da molti fattori come temperatura dell’aria, dati barometrici, visibilità, stato di forma, apertura del territorio, dimensioni, velocità e tipologia di fuga della preda.
falco pellegrino picchiata
falco pellegrino picchiata
Il pellegrino può colpire la preda direttamente con i tarsi a fine picchiata oppure superarla e risalire con una curva lungo il suo angolo cieco per legarla con gli artigli.
A tali velocità il minimo attrito con l’aria comprometterebbe l’assetto di volo e il successo dell’attacco, motivo per cui le penne devono essere tenute in condizioni perfette.
Una delle attività quotidiane dei pellegrini è la ricerca del più vicino corso d’acqua corrente e poco profonda dove farsi il bagno e sistemare e impermeabilizzare le penne, abitudine così frequente da condizionare la scelta dei territori di caccia e dei posatoi di riposo.
Prima della caccia di solito si lanciano in qualche forma di gioco di riscaldamento, simulando attacchi alle pavoncelle o molestando qualche cornacchia di passaggio.
Quando l’aria inizia a scaldarsi parte la caccia vera con la perlustrazione sistematica del territorio, che solitamente viene sfruttato per qualche giorno alternato ad altri, anche a 20-30 km di distanza, per evitare un’azione difensiva nelle prede che potrebbero abbandonarlo definitivamente.
Alcuni setacciano in linea retta per 10 o 20 km, invertono la direttrice e rientrano per attaccare le prede già allertate e pronte a involarsi, altri battono il territorio controvento per compiere poi lunghe e repentine planate diagonali di diversi chilometri a favore di vento.
A volte possono aspettare su un comodo punto di osservazione e approfittare della conoscenza dei posti utilizzati solitamente dalle potenziali prede per abbeverarsi e nutrirsi o delle rotte abituali da e verso il nido.
Generalmente nei giorni e nei periodi più tiepidi sfruttano le correnti ascensionali, cacciano ad altezze superiori e sopra un’area più vasta rispetto alle giornate fredde e nuvolose o di pioggia o nebbia, elementi questi ultimi che inibiscono più di altri il raggio d’azione.
Ciò che attira maggiormente l’attenzione sono il piumaggio bianco o chiaro (il bianco del collare e delle bande alari del colombaccio sono ottimi punti focali per il falco in picchiata),
le vocalizzazioni in volo ( come quelle delle allodole), i comportamenti anomali che possano tradire una qualche forma di debolezza, come malattia, giovinezza o vecchiaia.
La scelta della preda dipende ovviamente dalle specie disponibili, che variano in base all’habitat e alla stagione eppure, anche tenuto conto della disponinilità, una specie risulta essere in assoluto la preferita, la “controparte” per eccellenza: il piccione e il suo relativo selvatico, il colombaccio.
Una preda velocissima, resistente e con grandi abilità di virata e di manovra, insomma un osso duro.
Anche questo, secondo me, rende l’idea di che pasta siano fatti i pellegrini.
Lara Flisi